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martedì 17 luglio 2007

Verso un'ecologia politica

Verso una “ecologia politica”
di Carlo Brunelli



La politica è la più nobile delle arti”, sentenziava Platone.
Non credo intendesse per nobiltà il privilegio di casta, ma così forse è stato interpretato dall’attuale classe politica.
Molte verità furono scritte dagli antichi riguardo alla politica, ad esempio tra i Consigli di Plutarco ce n’è uno particolarmente significativo, che ammonisce:
frequente è anche il caso di chi si è accostato alla vita pubblica in modo casuale e quando ormai non ne può più fatica a districarsene, finendo per trovarsi nella stessa situazione di chi è salito in barca per scuotere il corpo, ma poi, una volta al largo, comincia a soffrire il mal di mare e rimane a scrutare l’orizzonte in preda a nausea ed agitazione, senza far altro che restare dov’è e rassegnarsi alle circostanze. A forza di pentimenti ed inquietudini costoro ottengono anche di screditare in modo gravissimo l’attività politica”.
Ogni riferimento a persone o circostanze locali è, se vogliamo, soltanto casuale.

Ma il problema della politica oggi non è solo la perdita di quei valori nobili di cui molto discutevano gli antichi.
Oggi, a differenza del passato, l’attività politica si coniuga attraverso il “sistema dei partiti”, un sistema che nell’antichità non esisteva e che si è formato nella democrazia moderna ed in Italia in modo particolare.

Il forte contenuto ideologico che ebbero i partiti in Italia fino al secondo dopoguerra determinò il formarsi di apparati organizzativi complessi e strutturati.
Pensiamo a ciò che erano la Democrazia cristiana ed il PCI nel contesto della guerra fredda tra USA e URSS.
Nuove realtà economiche si costruirono attorno al Partito comunista rivoluzionario, come le grandi cooperative rosse, pronte ad occupare il potere sostituendo o integrando le aziende private. Per contro i vecchi poteri economici si legarono in modo stringente al bastione popolar-cattolico in difesa del libero mercato.
Il contenuto ideologico dei partiti progressivamente si dissolse ma restò l’apparato, ed il forte legame tra politica e gruppi economici.
Su queste basi si aprì, con la caduta del muro di Berlino, la fase del trasformismo politico, che portò all’eliminazione dei socialisti, alle frammentazioni della Dc e del Pci – contenitori ormai inutili – ed all’avvento di Berlusconi.
Lo spazio della politica si spostò nei dibattiti televisivi, sempre più volgari, dove i giochi di alleanze, riposizionamenti, distacchi improvvisi hanno preso sempre più spazio rispetto ai contenuti della discussione ed alle esigenze reali del paese.

Ormai quasi nessuno vota questo o quel partito perché ne condivide gli ideali o i programmi, che sono la copia l’uno dell’altro. Si vota il volto del politico, la sua capacità di comunicare fiducia, o la disponibilità a tutelare l’interesse individuale specifico, essenzialmente di tipo economico.
Oggi infatti la politica parla solo di economia, contrapponendo l’interesse del dipendente pubblico a quello del lavoratore autonomo, del giovane precario al pensionato.
Si vota il partito che difende la propria condizione economica (e solo in parte quella sociale), assicurando stabilità e prospettive.
Il bene collettivo, il futuro di una comunità, sono termini che l’attuale politica non usa più.
E poiché si vota per difendersi dalla condizione di incertezza e di crisi, quella condizione diviene essenziale al mantenimento del potere politico da parte dei partiti.
In sostanza i partiti mantengono se stessi e il proprio apparato, composto dai politici di mestiere e dai loro dipendenti, grazie alla situazione di incertezza ed alla paura della crisi economica che aleggia nel paese da decenni, divenendo ormai una condizione strutturale del sistema.
Senza lo spauracchio della crisi economica probabilmente l’intero sistema collasserebbe, anche perché i cittadini inizierebbero a pretendere di più dai politici che li governano.

Ma in ambito locale accade che si riconosca l’esistenza di legami che vanno oltre l’interesse individuale. Legami che portano a difendere la storia e la cultura di un territorio, un’opera d’arte o la salute dei propri figli, a prescindere se sono figli di operai o di dirigenti d’industria o ferrovieri.
In questo contesto emerge di nuovo il bene comune come oggetto della politica: la res publica.
Ed è in questo contesto locale che emerge l’inaffidabilità dei partiti, la loro incapacità a risolvere i problemi, il loro essere burocrati o funzionari lontani dalle reali esigenze della società, capaci solo a barattare il loro aiuto in cambio del voto nel momento delle elezioni, per poi gestire la cosa pubblica come fosse una questione privata.

Alcuni ecologisti, già a partire dagli anni novanta, hanno coniato un nome per rappresentare il senso di una nuova politica fondata sul riconoscimento dei legami di cittadinanza,di appartenenza a un territorio. Questo nome è “ecologia politica” da oikos (=casa) e logos (=pensiero, ma anche collegamento tra cose).

La nascita dei comitati, delle liste civiche, risponde a questa esigenza di riappropriazione della politica da parte delle comunità locali.
Questa spinta dal basso pretende un altro modo di fare politica, basata sulla solidarietà, sulla partecipazione, sulla condivisione delle responsabilità delle scelte.
I partiti oggi non possono essere portatori di questa politica, perché se lo facessero metterebbero in discussione il loro apparato, il loro rapporto privilegiato con i poteri forti dell’economia , dai quali dipende la loro stessa esistenza, e la ambita condizione del “politico di mestiere”.

Falconara è un caso esemplare in cui i partiti rispondono ai gruppi economici più che alle esigenze dei cittadini.
Se Merloni e Pieralisi hanno bisogno delle strade i partiti chiedono strade e tutti, prima la destra e ora anche la sinistra, sostengono l’operazione Quadrilatero, dove troveranno spazio le grandi imprese costruttrici, le grandi imprese di escavazione, i grandi gruppi immobiliari.
Se l’Api vuole condurre il business dell’energia costruendo le nuove centrali voi vedrete i partiti ad uno ad uno diventare possibilisti o fatalisti, e quella cosa alla fine si farà.
Ma quando i cittadini di Falconara chiedono la tutela della loro salute, del loro mare della loro aria nessun partito sostiene in modo serio e fattivo le loro richieste! Non lo hanno fatto fino ad oggi né mai lo faranno.
E allora Falconara, dove non ci sono grossi gruppi industriali eccetto l’Api, la quale non ha certo interesse che l’economia locale si sollevi costruendo alternative al suo comodo ricatto occupazionale, deve affrancarsi da una situazione di servitù alla quale è costretta da troppo tempo, deve tutelare i propri diritti senza aspettare l’aiuto di nessuno, perchè non arriverà, e senza perdersi nel fatalismo o ne morirà.
In Italia nell’ultimo decennio sono ormai numerosi i casi di comunità locali che si sono autorganizzate al di fuori dei partiti tradizionali, rifondando la politica e costruendo forme interessantissime di buon governo, con risultati prima insperabili.
Falconara deve guardare a quelle esperienze con un preciso obiettivo: restituire Falconara ai falconaresi.


Falconara Marittima, 13.07.07

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5 Commenti:

Alle 18 luglio 2007 alle ore 12:40 , Anonymous Anonimo ha detto...

molto d'accordo con il tuo sfogo ma purtroppo arrenditi all' evidenza che il menefreghismo è il sentimento di maggioranza nelle persone miscelato con un pò di ignoranza diffusa ed ecco fatto il danno dell' italia.piccolo esempio a jesi era nato un partito fatto di cittadini e non ha vinto ha vinto i soliti noti purtoppo la classe politica è lo specchio del paese.non voglio generalizzare ci sono molte persone meritetevoli ma sono la minoranza e la minoranza non comanda.

 
Alle 18 luglio 2007 alle ore 20:45 , Anonymous Anonimo ha detto...

e quale sarebbe questo partito "fatto di cittadini"_di jesi?

 
Alle 21 luglio 2007 alle ore 17:10 , Anonymous Anonimo ha detto...

Dal PDb, partito delle banche, non potevamo attenderci nulla.
Ma che figuraccia che hanno fatto
i vari comunisti e i sinistrosi democratici

 
Alle 21 luglio 2007 alle ore 22:41 , Anonymous Anonimo ha detto...

i capitalisti sono capitalistri , non sono ne di destra ne di sinistra . i lavoratori debbono essere liberati da questa morsa che stritola sempre di piu

 
Alle 29 ottobre 2007 alle ore 18:28 , Anonymous Anonimo ha detto...

Territorio, Sviluppo, Sostenibilità

Senigallia, 23.06.07

Dopo che l’ecologismo italiano decise di passare dalla dimensione del movimento a quella del partito politico, sotto la spinta iniziale di pensatori di rilievo come Alexander Langer, abbiamo assistito ad un progressivo smarrimento.
Da un lato il partito ha perso capacità di elaborazione assumendo sempre più le fisionomie ed i modi tipici della casta politica italiana, dall’altro lato pressoché tutti i partiti della sinistra hanno inserito nei loro programmi le questioni tipiche dell’ambientalismo, della tutela del territorio, del risparmio energetico, della relazione tra inquinamento e cambiamenti climatici.
Frammenti, spesso importanti, dei verdi si sono separati più volte per confluire in nuove formazioni, comitati civici, ricercando disperatamente nuove vie per reagire allo smarrimento.
C’è da chiedersi se oggi abbia ancora senso parlare di ecologismo come di una proposta politica riconoscibile alla quale la società possa riferirsi per superare l’attuale stato di crisi o se invece dobbiamo assumere l’ecologismo come un ingrediente, importante ma parziale, delle proposte politiche di tutti i partiti della sinistra e forse (perché no a questo punto?) anche della destra.
Nella frammentazione e nella voglia di riunificazione che anima oggi i progressisti di sinistra è ancora pensabile parlare di ecologismo come progetto politico identificabile rispetto a quello storico del socialismo o del comunismo? Esistono differenze, esistono peculiarità, o tutto è relativo alle logiche di posizione e di opportunità nello scacchiere di un gioco della politica sempre più fine a se stesso e lontano da sentire della gente?
Ritengo che su questo tema vada avviata una profonda riflessione.
Non è certo questione da poter affrontare in modo esauriente in questo incontro che celebra l’epifania di un nuovo movimento, ma vorrei comunque portare argomenti utili a dimostrare che l’ecologismo una sua chiara identità c’è l’ha eccome e che se iniziassimo a parlare di contenuti questa identità emergerebbe in modo fragoroso.
Voglio dire che l’ecologismo esprime innanzi tutto un modo di concepire il mondo e la società come sistema complesso di relazioni. Un sistema a-centrico, cioè non riferito all’uomo come fulcro attorno al quale gravita l’universo.
Esiste un equilibrio dinamico che si fonda su relazioni a cui anche noi siamo legati in modo profondo ed indissolubile.
Questo modo di vedere le cose contrasta palesemente con lo spirito liberista per il quale uomini, cose, questioni, sono libere le une dalle altre e le semplici relazioni di tipo causale sono governabili attraverso il pensiero scientifico e lo strumento della tecnica.
Potrà sembrare un’osservazione banale, ma la realtà dimostra che non tutti hanno chiara questa diversità, specie tra coloro che si professano ambientalisti.
Userò tre parole: territorio, sviluppo e sostenibilità per cercare di mostrare alcuni motivi dello smarrimento e della confusione che c’è nell’ecologismo italiano oggi e l’urgenza di fare chiarezza, pena la fine stessa del pensiero ecologista.
Ovunque si parla ormai di sviluppo sostenibile. E’ l’iniezione ambientalista, la pennellata verde che decora tutti i programmi dei partiti politici o degli stessi piani aziendali delle grandi industrie.
Lo sviluppo sostenibile è ormai assunto come icona dell’ecologismo.
Il termine sviluppo significa letteralmente “liberarsi dall’in-viluppo” cioè dal legame; quindi svincolarsi. In senso lato indica una prospettiva di crescita.
In economia lo sviluppo come crescita è l’assunto essenziale del capitalismo.
Ma di fronte alla crisi ambientale planetaria che rischia di mettere in discussione la nostra sopravvivenza sulla terra ha senso parlare di crescita illimitata, di sviluppo?
Da più parti si sta discutendo di un’economia legata al territorio, di soft-economy come alternativa ai modi tradizionali di sviluppo economico. Ma io preferisco ancora riferirmi alla riflessione che Langer faceva nel ’94 quando parlava di “autolimitazione” come paradigma per una nuova economia. Lo preferisco perché ha ancora un respiro più ampio rispetto alle recenti discussioni circa il ruolo dell’Italia nel mercato globale, perché pone una questione etica generale, valida anche per i paesi, come la Cina o l’India, che non a caso chiamiamo in via di sviluppo.
C’è poco di nuovo a prospettare una soft-economy italiana a fianco di una hard-economy cinese.
Alcuni giorni fa il tavolo tecnico della VIA presso il Ministero dell’Ambiente ha espresso parere favorevole al progetto delle nuove centrali Api a Falconara. Pur ammettendo che l’operazione comporta un incremento di emissioni di CO2, in contrasto quindi con gli impegni assunti con il protocollo di Kyoto, il tavolo afferma che l’Api potrà acquistare altrove le quote di CO2, magari in Russia o in Pakistan, e così il problema è risolto.
Il mercato non vuole vincoli. Ad ogni condizionamento c’è sempre un modo di svincolarsi.
L’ecologismo, al contrario, si fonda sui legami e sulla comprensione del loro valore.
Lo sviluppo come fondamento dell’economia è un concetto estraneo all’ecologismo.
Veniamo ora all’altro termine: la sostenibilità.
Il rapporto Burtland (1987) definisce lo sviluppo sostenibile come “uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.
E’ in fondo una frase di buon senso. Qualsiasi contadino sa che se si mangia tutto il grano raccolto poi non c’è più nulla per la semina successiva e che la terra va mantenuta fertile per poter continuare a dare frutti. Tutto qui?
Ma c’è qualcosa che fa da sfondo a questa definizione per cui sembra si attribuisca un valore alle cose come risorse e in quanto risorse. Ad esempio preservo le foreste perchè mi daranno legno ed ossigeno anche per le future generazioni. Ancora una volta un concetto di tipo economico.
E veramente crediamo che un albero possa essere ridotto alla quantità di legno o di ossigeno che produce e che dobbiamo salvarne una parte solo per evitare che il legno e l’ossigeno finisca?
Se penso all’albero personalmente non riesco a non considerare un sacco si cose: gli animali che ci abitano, il fruscio delle foglie mosse dal vento, l’ombra che ci ripara dal caldo d’estate e infinite altre cose.
E questo ci introduce ad un altro aspetto importante che io ritengo identifichi gli ecologisti.
Marx nel Capitale afferma che:
“ogni progresso della cultura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare un operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, come ad esempio gli Stati Uniti, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione dei processi di produzione sociali solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.”
È in fondo un discorso sulla sostenibilità. Ma di che uomo e di quale terra sta parlando Marx? Dell’uomo-lavoratore e della terra-risorsa!
Sta ancora parlando il linguaggio dell’economia di mercato che è il linguaggio positivista per eccellenza.
Max Stirner, anarchico individualista, contestava il comunismo ed il socialismo proprio su questo aspetto, affermando:
“E che, sono forse al mondo per realizzare delle idee? Magari per fare la mia parte, come cittadino, per realizzare l’idea “Stato” o per dar corpo, tramite il matrimonio, come marito e come padre, all’idea della famiglia? Che cosa me ne importa di una missione del genere! Il mio vivere è tanto poco una missione quanto lo è la crescita e il profumo del fiore.”
L’ecologismo intende guardare all’uomo in sé, o all’albero in sé, indipendentemente dalla sua funzionalità.
Non proteggo l’albero perchè mi interessa conservare il suo legno, ma perché è bello, perché è giusto, perché lo amo. Non difendo l’uomo in quanto lavoratore ma come persona, insieme di sentimenti, aspirazioni, sogni.
Ritengo che la nostra società abbia bisogno di guardare alla realtà, alle persone, in modo più completo, smettendola di considerare tutte le cose come ingranaggi di un sistema.
Si potrà obiettare che se l’ecologismo arriva a contestare il concetto di sviluppo-sostenibile allora propone il non fare, il declino e l’impoverimento. Non è affatto così. Non si propone il non fare, ma la consapevolezza del fare,nei limiti dettati dalla necessità reale.
Si tratta di abbandonare la creazione artificiosa della domanda economica, lo spreco, introducendo nuovi concetti come quello di entropia, di energia impiegata, per valutare la convenienza sociale ed ambientale, prima che aziendale, di una scelta.
Sono convinto che la nostra permanenza sul pianeta dipenderà dalla nostra capacità di cambiare la società e la cultura in modo profondo.
L’ecologismo, solo il vero ecologismo è portatore della necessaria profondità.
Da ultimo il termine territorio.
Ci sono molti modi di definire il territorio. Il più generico, ma anche il più corretto è quello che vede nel territorio lo spazio di azione di una determinata specie animale.
Il nostro territorio, in quanto esseri umani, è quello in cui agisce la nostra comunità sebbene sia difficile definirne con precisione i confini.
In quanto spazio di una comunità sociale possiamo dire che sussiste un rapporto di co-appartenenza tra territorio e comunità. Ne consegue l’assoluta imprescindibilità, parlando di questioni territoriali, da concetti quali la partecipazione dei cittadini alle scelte o la sussidiarietà nei processi decisionali e gestionali.
Ma poiché l’azione dell’uomo è tendenzialmente illimitata, accade anche che non esistano confini tangibili e che così come le comunità di sovrappongono, si mescolano, così i territori si estendono e si confondono, tanto che sarebbe più corretto parlare di territori, anziché di territorio, coprenti l’intero pianeta.
Questa dimensione globale assunta dal concetto stesso di territorio, e con lui da quello di comunità, fa sì che il legame di co-appartenenza coinvolga con noi l’intero pianeta.
Non possiamo rimanere insensibili ai problemi di chi abita dall’altro lato del globo come se ciò non ci riguardasse. C’è un legame che ci unisce a quel luogo lontano.
Così non ha senso dire “non vogliamo qui la centrale nucleare o la discarica, fatela altrove”, perché non esiste un altrove e perché il male non si tramuta in bene se lo teniamo lontano dai nostri occhi ma resta tale.
Ogni azione ingiusta, ogni ferita alla terra ci provoca dolore.
Così è anche per la dimensione sociale. Non possiamo esaltare il miracolo economico cinese che si fonda sulla negazione dei diritti sindacali e dei diritti dell’infanzia; non possiamo dire democratici gli Stati uniti che conservano la pena di morte; non possiamo guardare con simpatia ai movimenti islamici che praticano la schiavitù della donna.
Parlare di territorio significa quindi parlare necessariamente anche di convivenza, democrazia e solidarietà.
Ma noi siamo stati abituati a parlare di territorio soltanto come luogo del costruito, dello sviluppo e deposito di risorse. Un concetto disseccato, impoverito.
Spesso mi capita di portare l’esempio della cartografia con la quale le diverse culture hanno voluto rappresentare il territorio. Nelle carte antiche, sempre colorate, dominano gli elementi fisici e naturali, le morfologie, i fiumi, i boschi, i campi coltivati. Le stesse architetture erano raffigurate al vero. Progressivamente la rappresentazione, e quindi l’idea, di territorio si spoglia. Restano le strade, l’ingombro degli edifici, le infrastrutture, monocolori su un fondo bianco indifferenziato.
Il territorio è diventato l’insieme delle opere fatte e da fare su un supporto – la terra – indifferente, buono per essere frazionato, accatastato, misurato in termini di superficie. Superficie che genera un valore immobiliare.
Su questa idea di territorio nasce e si sviluppa l’urbanistica come strumento attraverso il quale regolare gli interessi immobiliari connessi alla crescita delle città, allo sviluppo.
Di fronte al rischio di esaurire le risorse naturali ecco che l’urbanistica ha prodotto i vincoli.
Una parte del territorio – piccola – è destinata a preservare le risorse naturali, storico-culturali ecc…, l’altra parte – più grande – può essere sfruttata come risorsa suolo.
Con l’introduzione dei vincoli, che sono oggi in verità assolutamente necessari, non è però cambiato il modo con il quale ci rivolgiamo al territorio, anzi la netta separazione tra spazio del vincolo e spazio del libero agire, che dal punto di vista ecologico è evidentemente un non-senso, ha allentato l’attenzione sui modi di intervento nello spazio non vincolato.
Qualche anno fa i Piani regolatori erano valutati da commissioni di esperti che analizzavano i contenuti del progetto di Piano, ora la procedura è semplificata e si valuta soltanto la conformità. In altri termini si verifica soltanto il rispetto di vincoli e norme senza alcun giudizio sulla qualità delle scelte di Piano.
La Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.) e la Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.) sono strumenti recenti creati proprio per affrontare il tema della qualità ambientale o della strategicità delle scelte. Entrambi nati con obiettivi ben più ambiziosi, in breve tempo si sono ridotti ad un conteggio numerico riferito a pochi semplici indicatori ambientali che tentano di misurare il progetto in termini di pressione ambientale senza però capire nulla dell’ambiente e del paesaggio in cui l’opera si colloca, che risolvono ogni cattivo progetto con operazioni di mitigazione o compensazione.
Ancora una volta si può fare praticamente di tutto se si mette in campo un adeguato risarcimento.
Lascio a chi mi ascolta la riflessione sulle questioni di carattere etico che questo atteggiamento si porta appresso.
La più recente frontiera delle politiche del territorio è rappresentata dalla Legge n.131/2003 con l’intesa stato-regioni.
La Quadrilatero è un caso emblematico del potere devastante dello strumento dell’intesa che può vanificare ogni atto di pianificazione, calando dall’alto non soltanto le scelte infrastrutturali, ma anche l’intero processo di costruzione del territorio. Ma la Quadrilatero non è che un caso.
Ormai diversi Piani regolatori sono costruiti esclusivamente sulla base delle proposte di “perequazione” avanzate dai privati, senza alcun progetto di fondo. Dove il Comune tira su più soldi dall’attività edilizia lì si costruisce.
Già oggi con lo sportello unico per le attività produttive si va in deroga al Piano regolatore. Il consiglio decide di volta in volta le proposte di insediamento. In base a quale criterio? A sentimento…
Al Senato sta per essere approvata una proposta di legge, la n.1532, soprannominata “un’impresa in sette giorni” che prevede come la sola presentazione della domanda allo sportello unico costituisca condizione sufficiente per il rilascio del titolo edilizio.
La nuova legge urbanistica regionale, alla discussione della commissione, nel distinguere tra piano strategico e piano operativo lascia intendere che il piano strategico può ridursi ad una manciata di indirizzi politici, senza alcun contenuto progettuale, lasciando al piano operativo, detto anche piano del sindaco, la piena potestà sul territorio. E mi pare di vederli i mille piccoli sindaci impettiti che maneggiano carte e zonizzazioni, che fanno e disfano i piani.
Le esperienze di progettazione partecipata, di costruzione collettiva dell’idea di città e di territorio sono però lì, anche se poche, a testimoniare che su questo argomento gli ecologisti hanno molto da dire e da fare per restituire dignità e senso alla pianificazione.
E anche se noi ecologisti ci ostiniamo a non capire l’importanza del nostro ruolo nella società, anche se sembriamo rifiutare il palcoscenico, è la storia che ci chiama.
I cambiamenti climatici sono una realtà che solo chi ha occhi per vedere riesce a cogliere nella loro esatta dimensione. I ciechi continueranno a vedere ciò che vogliono vedere, magari una nuova opportunità di marketing, e continueranno a comportarsi come prima.
Le alluvioni dello scorso settembre nell’osimano ed a Falconara sono state talmente anomale che non se ne ha memoria negli ultimi duecento anni.
Ma a pochi mesi dall’evento nulla è cambiato, si continua a pensare a costruire capannoni e infrastrutture in quelle aree, a programmare di spendere soldi lì dove si finirà per impantanarsi.
Abbiamo cambiato il mondo e continuiamo a farlo ma il mondo presto cambierà noi.
Chi prima è disposto a cambiare meglio ne verrà fuori. Cosi riguardo alle produzioni energetiche, così nelle strategie di governo del territorio.
La strategia buona per domani non è quella di intasare le valli e la costa di capannoni e strade ma di delocalizzare. Allora bisogna pensare a forme di abbattimento del valore fondiario delle aree più fragili, cambiare i parametri su cui si regge l’attuale estimo fondiario. Ripensare le città, ridare spazio a fiumi perché le alluvioni saranno più violente, alleggerire la costa perché il livello del mare si alzerà.
La natura costringerà tutti, per necessità, a comportamenti diversi; quei comportamenti di cui già oggi noi ecologisti siamo i portatori, per consapevolezza.
Questo solo per dire a quegli ecologisti che dubitano di poter avere un ruolo nella società rispetto a quello, ormai sfatto, dei partiti tradizionali, di guardarsi bene allo specchio ed avere più fiducia in sé stessi e più orgoglio di ciò che si è.

Carlo Brunelli

 

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