X FALCONARA

spazio libero di chi vuole un futuro migliore per la nostra città

mercoledì 6 novembre 2019

stare, nell'attesa di vivere





„Mi regalo continue amnesie per rimanere in un ignoto che può far paura ma che fa meno male del coraggio di affrontare quello che la nascita mi ha riservato.“ —  Isabella Santacroce 


Soltanto da poco tempo sto comprendendo davvero qual'è la radice della crisi che , in varie forme, colpisce la nostra società. Non parlo della radice filosofica, ma di quella che abita nell'animo della maggior parte di noi ,che da quella deriva ma che non riconosce come sua causa, così che essa ci sembra non aver origine ma essere immanente in noi, apparendoci come realtà e normalità del nostro essere.
Da tempo lavoro sulla elaborazione di visoni di futuro che si basano sulle concrete potenzialità che sono, per me, leggibili nel territorio, invitando le comunità locali, le amministrazioni, a intraprendere iniziative per costruire quelle visioni e farle vivere, per disegnare il proprio futuro.
In questa funzione io dovrei essere, usando un brutto termine, un semplice "facilitatore". Quella persona che, per esperienza e talento, sa riconoscere con più rapidità e compiutezza ciò che, se illustrato, risulta accessibile,visibile, a tutti. In altri termini io dovrei essere un aiutante a disposizione della comunità locale nel suo intraprendere il viaggio entusiasmante verso il futuro possibile.
Nel mentre gestisco questa figura di "facilitatore" mi accorgo però ben presto che il mio ruolo deve necessariamente essere un altro, ben più importante e solitario insieme. Ho chiamato questo ruolo con termini diversi: dapprima "coordinatore", poi, più recentemente, "motivatore" ma mi accorgo, con profondo scoramento, che la mia figura, soprattutto agli occhi della comunità e degli amministratori, è in verità quella della "guida".
Il problema è che, nonostante i percorsi partecipativi, le documentazioni fornite, i percorsi sul campo condivisi, la maggior parte delle persone non vedono quello che io vedo. O meglio non vedono  le potenzialità che io riconosco nelle cose, la loro intrinseca capacità di divenire anche altro e altro ancora rispetto a ciò che noi siamo abitualmente convinti che le cose siano.
Alla fine accade che le persone restano affascinate nelle "mie" visioni e sono disposte persino a seguirmi contagiate dall'entusiasmo con cui parlo della realtà possibile e di come la descrivo, tanto da farla "sembrare vera"ai loro occhi.

Ho riflettuto a lungo su questa situazione per me dolorosa perché incute in me il sospetto di non riuscire a condividere veramente con gli altri il cambiamento che io vedo come necessario e ineluttabile nell'incamminarsi verso un futuro.

Penso che sia profondamente penetrata nel cuore e nella mente delle persone una fondamentale "paura di vivere". Una "fobìa" generale che paralizza la società umana e la rende infruttifera.

Un caro amico, L.B., che ha fatto dell'insegnamento della "cultura d'impresa" la sua professione, organizza incontri rivolti agli imprenditori marchigiani (e non solo) che sono sempre più affollati di partecipanti. L'ultimo incontro ha visto la presenza di 600 imprenditori andati ad ascoltarlo parlare, come si va ad ascoltare un predicatore. E lui insegna cose apparentemente semplici , usa frasi prese dai proverbi della tradizione popolare quando consiglia di "usare la legna che c'è in cascina",o quando chiede loro se mai si sono trovati a domandarsi "che cosa ho sbagliato questa settimana"? Perchè sono gli errori a farci migliorare. Oppure invita a riflettere se davvero sono state valutate tutte le opzioni per la ricerca della soluzione di un problema, comprese quelle inverosimili, o quelle scomode, o "impensabili". Incita al pensiero critico positivo, a prendersi più sul serio facendosi più piccoli e mettendosi in discussione, ad essere "eretici" rispetto al comune pesare, consapevole che - come sosteneva Einstein - non possiamo risolvere una crisi col lo stesso pensiero che l'ha generata.
In pratica, il mio amico, aiuta gli imprenditori a "vivere", ad essere persone compiute,  a maturare e, attraverso questo processo di educazione,  a vincere quella "fobìa" che li rende incapaci di vedere le possibilità che pur hanno davanti a sè e li lascia smarriti rispetto ad un'idea di futuro.

Sottolineava Baumann: "La comprensione nasce dalla capacità di gestire. Ciò che non siamo in grado di gestire ci è «ignoto»; e l'«ignoto» fa paura. La paura è un altro nome che diamo al nostro essere senza difese.“ 

Per la mitologia greca Phobos (la paura) è figlia di Ares (la guerra) e di Afrodite (la bellezza). Guerra e bellezza sono le due forze pulsanti della vita. Forze che ci sovrastano e ci spingono al nostro destino. La Paura, in questo senso, è figlia del vivere. E' la nostra naturale resistenza alla spinta del destino. Ma se non riusciamo a fare da parte quella resistenza aprendoci con fiducia e gioia al nostro destino non riusciamo a vivere.
Per chi non vive, l'esistenza è un attendere. Che cosa? Non si può sapere perchè fuori dal recinto del presente tutto ci è ignoto. Solo la nostra volontà-capacità di intravedere possibilità fuori dal presente ci può spingere verso il futuro, lo può rendere possibile aprendoci (esponendoci) alla vita.

Con questo voglio dire che non esiste alcuna crisi che ci impedisce oggi di costruire il nostro futuro. Non esistono problemi insormontabili: né la scarsità delle risorse, n'è le difficoltà di ogni sorta. La crisi è in noi. O meglio siamo noi la crisi in cui ci troviamo a stare anziché vivere.
E nella nostra interminabile attesa, Phobos ci travolge, moltiplicando in noi mille manifestazioni della paura: della povertà, dell'estraneo, della vecchiaia, della malattia, della morte, dell'insuccesso, del non essere amati, del cambiamento, del clima, del buio, della pioggia o del sole,... di ogni cosa.

Tempo fa scrissi una poesia dialettale dedicata idealmente a un figlio, e che esprime quello che, in sostanza, è l'unico insegnamento che sento di poter fare a un figlio:



Ku t’ho da dì 

Ku t’ho da dì, fiolu mia,
de sta vita?.
Ku te pudrìa di io
ke ankò svurìkio le cime
ke c'agu strette adosso? 
Questu solo tien’a mente: 
E’ le ma tue,
sol quelle,

ke tira su el muro 
ke divid'el kòre da la gioia.


Cosa ho da dirti

Cosa ho da dirti, figlio mio
di questa vita?
Cosa potrei dirti io
che ancora snodo le corde
che ho strette addosso?
Questo solo tieni in mente:
Sono le tue mani,
solo quelle,
che innalzano il muro
che divide il tuo cuore dalla gioia.


0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page