L’importanza e il senso della pianificazione come terreno di discussione per la modifica della legge urbanistica regionale e del Piano Paesistico
La Regione Marche è in procinto di rivedere la legge urbanistica regionale ed il Piano paesistico-ambientale
I due processi di revisione sono tenuti separati sebbene non siano affatto indipendenti, ma al contrario siano strettamente correlati, soprattutto intorno alla riflessione sul senso e gli obiettivi del pianificare.
Nelle diverse opinioni che timidamente si fanno avanti rispetto alla prima stesura della legge urbanistica regionale la questione strumentale fondamentale sembra essere generalmente condivisa: la necessità di separare il livello della pianificazione da quello della gestione attraverso l’introduzione del piano strategico e del piano operativo.
Gli urbanisti, anche per bocca dell’INU, mettono l’accento sulle nuove opportunità strumentali, tecniche e giuridiche, legate alla perequazione ed alla riduzione del valore degli espropri. Soluzioni gestionali che consentirebbero di dare maggiori energie economiche agli enti locali e di incrementare e qualificare gli spazi di servizio pubblico.
Gli urbanisti quindi, anche per la richiesta pressante delle pubbliche amministrazioni che soffrono di una generalizzata difficoltà nel chiudere i bilanci annuali, pongono il massimo interesse nel piano operativo, più che sul piano strategico, come ambito entro il quale ricercare il miglioramento del governo del territorio e al contempo consentire maggiori entrate alla casse comunali.
Il piano strategico resta sempre più confinato in un ambito di decisione politica (la definizione degli obiettivi) dove gli urbanisti mostrano di non voler entrare, se non per qualche modesto stimolo all’inserimento di prassi partecipative e valutative come riflesso delle specifiche direttive europee.
Sui motivi di questo disinteresse e sull’attribuzione della responsabilità delle scelte strategiche alla mera dimensione politica occorre riflettere.
Questo atteggiamento infatti non è affatto normale o scontato, in quanto ciò che si misconosce o si tende ad eludere è proprio la competenza disciplinare dell’urbanistica nella definizione dell’assetto del territorio: dove e come espandere la città, con che logica dislocare gli spazi pubblici, le infrastrutture ed i servizi, come collocare le aree produttive. In una parola le scelte relative alla pianificazione territoriale ed all’architettura urbana sono considerate spazio decisionale della politica senza alcun riferimento ad un sapere disciplinare che ne debba verificare la validità o la coerenza.
Il misconoscimento, o per meglio dire il tradimento dell’architettura da parte degli urbanisti non deve sorprendere.
L’incarnazione in un’unica figura professionale dell’urbanista e dell’architetto era rimasta infatti una anomalia tutta italiana.
Così come la figura dell’ingegnere e dell’architetto si sono separate soltanto a partire al XIX secolo, la figura dell’architetto-urbanista è andata scomparendo in Europa a partire dal secondo dopoguerra, dove si assiste alla distinzione, già avvenuta in precedenza negli Stati Uniti, tra le figure del lanscape planner e dell’urban planner, come professionalità complementari ma distinte all’interno di gruppi di lavoro multidisciplinari che si occupano della pianificazione territoriale.
D’altra parte l’urbanistica, come disciplina che intende regolare l’uso e le possibilità edificatorie nelle aree urbane, nasce con la rivoluzione industriale per effetto del valore economico-commerciale generato dal suolo e con l’obiettivo di regolamentarne gli effetti sociali, garantendo adeguati spazi a servizio dei residenti, nell’evidenza del degrado degli slums inglesi come aspetto negativo di un liberismo incontrollato. L’urbanistica quindi vede sin dall’origine la città come un sistema le cui modificazioni sono guidate da interessi economici ed all’interno del quale vanno regolamentati i dritti privati e garantite infrastrutture di servizio utili a far funzionare al meglio il sistema stesso. C’è molto di giurisprudenza, economia, sociologia, ingegneria nell’orizzonte dell’urbanistica, ma ben poco di architettura e di paesaggio.
Tuttavia in un primo momento gli architetti hanno accolto l’urbanistica come nuova chiave di lettura di un mutazione profonda che ha coinvolto il territorio e la città con l’affermazione dell’economia di mercato, della borghesia al potere e dell’avvento della democrazia liberale. Ma il senso dell’urbanisme di Le Corbusier è ben diverso da quello che ha assunto rapidamente la pianificazione urbanistica nelle città occidentali e gli architetti, già con la Carta di Atene e nei primi decenni del secondo dopoguerra hanno dovuto prendere atto di una lontananza dell’urbanistica dall’architettura, sul piano culturale, etico ed estetico e in un certo senso anche politico.
In Italia invece, anche per effetto della presenza di una forte cultura della città insita nell’architettura, avvalorata da maestri quali Quaroni, Aldo Rossi, Muratori, Gregotti, Piccinato, De Carlo, i landscape planners e gli urban planners sono rimasti uniti nella figura dell’architetto-urbanista.
La ricerca di una “forma” della città si poggiava anche su una forte spinta verso un controllo pubblico delle grandi espansioni residenziali e produttive, attraverso i piani PEEP e PIP che si avvalevano della diffusa pratica dell’esproprio.
La progressiva affermazione dell’iniziativa privata su quella pubblica ha spostato però l’interesse dalla scelta circa la migliore localizzazione delle aree di espansione ai modi per controllare che le scelte e le individuazioni proposte dai privati fossero coerenti con l’assetto della città .
Ciò mentre l’assetto della città, l’idea stessa di forma urbana, veniva messa in discussione a partire dal piano per Palermo di Samonà, agli studi sui processi di dispersione urbana nel territorio.
L’effetto combinato di queste due situazioni, forse non casualmente contemporanee, ha soffocato sul nascere la ricerca disciplinare relativa alle nuove configurazioni urbane e territoriali ed ha concentrato l’ interesse solo sugli aspetti normativo-amministrtivi propri dell’urbanistica.
Possiamo dire che dopo la generazione dei Secchi, dei Nigro, dei Salzano, gli urbanisti hanno smesso di avere a che far con l’architettura e si sono preoccupati soltanto degli aspetti normativo-procedurali e tecnico-economici utili al governo della città e del territorio.
Nella stagione dell’urbanistica negoziata e degli accordi pubblico-privato la scelta sul dove e come costruire nasce ormai esclusivamente dall’iniziativa privata, rispetto alla quale l’avvallo o il diniego da parte dell’amministrazione pubblica, sempre più debole, è un fatto meramente politico.
Gli urbanisti non contestano questa deriva immobiliarista del processo di costruzione (se si può ancora chiamare costruzione) della città, anzi sembrano impegnarsi a trovare nuovi strumenti per far si che questo processo sedimenti e permetta una gestione efficiente del sistema.
D’altra parte sul piano professionale ormai la quasi totalità degli urbanisti sono dipendenti pubblici o professionisti di fiducia dei gestori politici degli enti locali che mai potrebbero o vorrebbero mettere in discussione le scelte operate dai politici dai quali, in un modo o nell’altro, dipendono.
Le università italiane, dal canto loro, non si sono mai caratterizzate per la volontà di rivendicare l’autonomia della ricerca rispetto alle direzioni poste dalla politica e si sono rapidamente adeguate smettendo quasi del tutto di sviluppare analisi e ipotesi inerenti i processi di trasformazione del territorio.
Non mancano neanche gli alfieri, sotto il profilo culturale, di questa stagione dello smembramento urbano. L’idea della città per frammenti teorizzata da Bohigas è il nuovo vangelo di quegli urbanisti-architetti che hanno bisogno di argomentazioni teoriche a supporto del loro operare in modo da non sentirsi in contraddizione con i loro titolo di architetti, ma semplicemente appartenenti ad una diversa (e nuova) scuola di pensiero.
I frammenti, con cui si costruisce la città senza porsi il problema di inserirli in un disegno globale, corrispondono alle possibili operazioni economico-immobiliari od alle macro-lottizzazioni. Gli ambiti cioè su cui si concentrano gli interessi immobiliari.
Sono questi semplici, cinici impulsi che disegnano la città, verso un assetto futuro non immaginato e non immaginabile, non progettato e non progettabile, carico di mistero e fatalismo.
Una città senza architettura, come dire: una montagna senza altezza, o un mare senza acqua.
La città non può non avere forma in quanto esite fisicamente come spazio costruito. Certo non è la forma geometrica della città murata o la trama ordinata delle città coloniali. E’ un'altra forma, complessa e fatta di nuovi segni e da nuove regola di composizione, ma non si può sostenere che non abbia forma.
Ne “le città invisibili” di Italo Calvino, Marco Polo riponde al Kublai Khan che gli chiede quale sia la cittàdel futuro: “Se ti dico che la città cui tende il mo viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla”.
Ma se la città senza architettura, la città degli urbanisti, è un non-senso, allora la distinzione tra l’urbanistica e l’architettura del territorio è finalmente un chiarimento, che ci riavvicina alla realtà europea.
La differenza tra la realtà Italiana e quella Europea, infatti, è oggi ancora sostanziale, perché se in Europa i landscape planners continuano a studiare e progettare le città per conto di pubbliche amministrazioni che non hanno mai delegato ai privati tale responsabilità e non hanno mai preteso che l’aspetto decisionale fosse a totale discrezione del politico incompetente, in Italia gli architetti sono stati messi da parte. I decisori politici si accordano con i propositori privati e gli urbanisti trascrivono le decisioni in piani regolatori muti – poco più che zonizzazioni - che si dedicano essenzialmente agli aspetti gestionali di natura giuridica e amministrativa.
Non è un caso che In Europa l’accordo con i privati investitori sia guidato dall’iniziativa pubblica attraverso Società di trasformazione urbana che assicura ai privati un ruolo economico indipendentemente dal dove e dal cosa prevedrà il Piano, la cui costruzione è esclusiva competenza degli architetti e delle amministrazioni che usano lo strumento dell’esproprio, coperto con gli investimenti dei privati partecipanti nella società di trasformazione.
In Italia le STU non sono mai decollate e i piani vanno avanti alla “Caltagirone” (l’imprenditore che ha fortemente orientato il disegno della Roma del futuro), dove i privati opzionano aree agricole per poi proporle come edificabili ad amministratori politici che le accolgono valutandone i vantaggi nell’interesse pubblico, quasi sempre monetizzazioni per fare cassa, nella più totale assenza di un disegno di assetto della città.
Allora la posta in gioco di fronte ala variante alla Legge Urbanistica regionale ed al PEAR è il senso stesso della pianificazione. La scelta è se le Marche vogliono assomigliare all’Europa o a Roma, se si vuole mantenere la potestà pubblica sul governo reale dei processi di trasformazione delle città e del territorio o si vuole affidarle ai Caltagirone, alle Quadrilatero, ai pool di imprese che mantengono un mercato dell’edilizia drogato dove è praticamente impossibile fare una reale politica per la casa e dove il dispendio di risorse per il malfunzionamento di città deformi è una delle vere ragioni dell’attuale crisi economica italiana.
Vero è che la discussione sulla necessità di ridare senso alla pianificazione non investe soltanto l’urbanistica, ma l’intera società italiana.
La delega ai privati nella gestione della cosa pubblica avviene in tutti i settori in cui sarebbe necessario pianificare e nei quali invece le scelte vengono prese di volta in volta, come conviene all’interesse dei privati. Nella gestione del ciclo integrato delle acque chi decide la politica di governo della risorsa idrica sono le società di servizi, che lo fanno con la logica di profitto nella erogazione del servizio, e di fronte all’emergenza idrica nessuno si preoccupa delle conseguenze di un ipersfruttamento delle risorse, così come le aziende private petrolchimiche a cui è demandata di fatto la politica energetica continuano ad orientare gli investimenti pubblici sui combustibili fossili facendo grandi affari senza preoccuparsi di certo delle conseguenze che la società dovrà affrontare per non aver investito in tempo sulle energie alternative.
E’ evidente quindi che la questione attorno alla pianificazione non può risolversi soltanto in un richiamo alla competenza ed alle buone prassi, ma è una questione culturale e politica.
L’urbanistica “accetta” questo sistema di cose laddove invece l’architettura ne incarna la “negazione”. L’urbanistica non può far altro che partecipare alla costruzione di quella che il Kublai Khan, nel libro di Calvino, definisce la città infernale, rispetto alla quale Marco Polo espone il suo punto di vista: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Potremmo concludere che il primo modo è quello scelto dall’urbanistica, il secondo dovrebbe essere quello proprio dell’architettura.
Tornando alla prevista modifica della legge urbanistica regionale, l’aspetto fondamentale su cui riflettere è allora il ruolo ed il contenuto del piano strategico.
Nella visione degli urbanisti, i quali non riconoscono l’esistenza di una forma della città e del territorio e quindi non se ne occupano, il piano strategico non può che configurarsi come una enunciazione di obiettivi politici.
Questa è l’interpretazione che si evidenzia nella bozza di legge urbanistica regionale, la cui redazione è stata demandata ovviamente solo agli urbanisti.
Se una tale interpretazione fosse confermata nel testo finale della legge, dobbiamo aspettarci che la attuale situazione non cambi affatto, anzi, probabilmente si affermerà una sempre maggiore discrezionalità politico-imprenditoriale nella gestione del territorio, laddove il piano operativo permetterà ai Sindaci di azzonare il territorio a loro piacimento, senza nessuna verifica di carattere qualitativo.
Ma se riconosciamo che accanto all’urbanistica esiste una competenza disciplinare che è quella dell’architettura del territorio e del paesaggio, riconoscendo con essa l’esistenza di una forma del territorio e del paesaggio, il piano strategico diviene chiaramente l’ambito della pianificazione-progettazione del territorio e della cura del paesaggio.
In questo modo il piano strategico assume “spessore” ed importanza - appunto – strategica, perché diventa il momento in cui si attua il riconoscimento collettivo dei valori del territorio, attraverso la prassi partecipativa, e si valutano le opzioni di evoluzione dell’assetto territoriale in modo da definire un progetto condiviso di territorio e di città.
La costruzione del territorio viene così ad essere ispirata alle esigenze ed alle aspirazioni di una società civile e non un processo governato dalla somma degli interessi imprenditoriali.
Ciò che chiamiamo paesaggio torna così ad essere semplicemente la manifestazione fisica di quella costruzione e di quella società. Il termine “torna” vuole evidenziare come il concetto di paesaggio, finito impropriamente nelle mani degli urbanisti, sia stato negli ultimi anni oggetto di intollerabili sevizie e mistificazioni.
Il fondamentale emendamento che occorre quindi introdurre nella nuova legge urbanistica regionale è la definizione del piano strategico come piano-progetto che si esprime attraverso analisi ed elaborati grafici propri della disciplina dell’architettura e di competenza di un gruppo tecnico multidisciplinare guidato da architetti esperti in territorio e paesaggio, mentre il piano operativo è gestito dagli urbanisti con l’ausilio di esperti in materia giuridico-amministrativa ed economico-finanziaria.
Abbiamo accennato al legame tra il progetto di territorio (piano strategico) ed il paesaggio come manifestazione di quel progetto, ma occorre approfondire questo argomento perché il chiarimento di questo legame mette in evidenza la necessità di non dividere la revisione della legge urbanistica dalla ridefinizione del Piano Paesistico Ambientale Regionale.
La struttura della disciplina urbanistica regionale ha generato un complesso di strumenti di pianificazione che appare tanto ridondante quanto di difficile gestione, soprattutto dopo che la richiesta di “flessibilità” degli strumenti di pianificazione da parte dell’imprenditoria e della politica è stata tradotta dagli urbanisti in piani di “indirizzo”, sempre più privi cioè di cogenza normativa e di contenuti progettuali definiti.
Il Piano di Inquadramento Territoriale (PIT) individua le linee strategiche essenziali dello sviluppo del territorio, ma è nei fatti continuamente corretto e superato dalle mutevoli esigenze di un assetto socio-economico sempre più instabile e dipendente da fattori esterni, esigenze alle quali si risponde attraverso le intese Stato-Regioni.
Ne consegue che i Piani Territoriali di Coordinamento (PTC), di livello provinciale, finiscono per dover assumere una grande flessibilità in merito a scenari, soprattutto infrastrutturali, che possono mutare da un momento all’altro per effetto delle intese Stato-Regioni.
La ricerca di coerenza tra i diversi Piani Regolatore Comunale e gli strumenti di pianificazione sovraordinate si riduce quindi ad un sistema di indirizzi e direttive, facilmente eludibili proprio in quanto non impositivo, e da un apparato normativo estremamente generico e interpretabile.
Un’altra serie di Piani si definiscono, più o meno volontariamente, per la loro natura di vincolo al possibile uso del territorio. In questo insieme si collocano il Piano Paesistico Ambientale, il Piano di Assetto Idrogeologico, i Piani delle aree speciali (parchi nazionali e regionali, riserve,…).
Sebbene il PPAR non si proponga come Piano vincolistico, richiedendo una lettura analitica del territorio e consentendo margini di autonomia nella trasposizione dei valori riconosciuti in apparati normativi, la concezione del paesaggio che sottintende è culturalmente vincolistica.
La suddivisione del paesaggio – concetto per sua natura olistico – in “categorie” ed in “classi di valore”, così come l’identificazione delle “emergenze” come ambiti territorialmente definiti nei quali il paesaggio assume valore, sottintende l’idea del paesaggio come una realtà discontinua e separabile, potenzialmente compromissibile da processi di trasformazione ad esso incoerenti (ma tuttavia non messi in discussione) e quindi da tutelare laddove se ne riconosce il valore di “risorsa”, e cioè di una bene la cui perdita sarebbe grave ed irreparabile (sotto l’aspetto naturalistico, ambientale, storico-culturale).
Questa idea di paesaggio genera una serie di ambiti territoriali sottoposti a vincolo che alla stregua dei parchi naturali, appaiono come “oasi” in cui conservare quella ricchezza di valori depositati nel disegno del territorio di fronte ad un processo di sviluppo “naturalmente” indifferente, omologante e desertificante.
Esiste tuttavia da anni un vasto dibattito culturale che ha messo in discussione questa visione del paesaggio come museo o parco distinguibile territorialmente attraverso linee di confine e necessariamente alternativo ai processi di trasformazione propri delle aree urbane.
Senza entrare troppo in profondità in un ambito di discussione variegato e complesso, come quello attorno al significato del paesaggio, è sufficiente delineare due concetti che portano a considerare la visone del paesaggio propria del PPAR fuorviante e impropria.
Il primo concetto è che il paesaggio è la manifestazione sincera della realtà visibile, la quale senza dubbio si carica anche di aspetti soggettivi propri dell’osservatore, ma che tuttavia non tollera mistificazioni. Diciamo che il paesaggio si coniuga necessariamente al presente, per evidenziare il non senso dell’idea di poter “conservare” il paesaggio, in quanto questo presupporrebbe la conservazione del modo di vivere, abitare, lavorare degli stessi abitanti in una sorta di grottesco “presepe vivente”. All’idea di “conservare” il paesaggio occorre quindi sostituire quella di “rispettare” il paesaggio, che sottintende la necessità di comprenderne le caratteristiche di averne cura e di intervenire, anche innovando, con coerenza.
Il paesaggio è comunque un risultato delle nostre azioni, una conseguenza che si manifesta per ciò che è, offrendosi alla nostra analisi ed al nostro giudizio. In altri termini è improprio pensare che si possa progettare il paesaggio, ma è giusto dire che si può progettare tenendo conto del paesaggio, e questo tener conto può essere dovuto a ragioni di necessità (come per i mezzadri che hanno costruito il paesaggio agrario marchigiano) od alla capacità di comprensione del contesto in cui si colloca un progetto (come per il progettista, ad esempio, del teatro di Taormina).
Il secondo è che il paesaggio non è dato solo dall’insieme degli elementi che lo compongono ma anche e soprattutto dal modo con cui questi elementi sono disposti ed entrano in relazione tra loro, e questo modo si esplica nello spazio (forme) e nel tempo (evoluzione). Pertanto, se è vero che possiamo riconoscere delle parti dove questi sistemi di relazione sono più ricchi e più articolati rispetto ad altri, è improprio, se non in rarissimi casi, delimitare queste parti entro confini precisi.
Dove finisce, ad esempio, nel paesaggio della valle del Chienti l’ambito fluviale da quello urbano o da quello agrario? Possiamo davvero definire l’ambito fluviale indipendentemente dalla presenza degli insediamenti e delle aree agricole? Sarebbe ancora quel fiume, o la trasposizione ciò che noi generalmente pensiamo debba essere un fiume? Ogni limite apparirebbe solo funzionale a delimitare ciò che possiamo fare o non fare in un determinato ambito; ma questa, per l’appunto, è già urbanistica e non più paesaggio.
La frammentazione della lettura del paesaggio non è soltanto un errore analitico ma porta inevitabilmente alla costruzione di un paesaggio frammentato.
Se osserviamo la foro aerea di una vallata marchigiana vediamo come le zonizzazioni urbanistiche divengono sempre più paesaggio a zone: aree industriali,oasi naturalistiche, zone residenziali, enclaves agricole in attesa di trasformazione, centri storici, servizi intermodali. Non c’è traccia di una qualche continuità o relazione tra queste zone, tra loro indifferenti.
Ciò non è che la riprova dell’assurdità dell’idea che la città non abbia forma. La città, nella sua dimensione territoriale, assume la forma della zonizzazione urbanistica e genera un particolare paesaggio. Il problema è la qualità di quella forma e di quel paesaggio che, per parafrasare Calvino, chiameremo della città infernale.
La Convenzione europea del paesaggio, assunta dagli urbanisti come il punto riferimento di ogni discussione attorno al paesaggio, appare in realtà un ammirevole tentativo di sintesi tra la visone strumentale del paesaggio, cara agli urbanisti, e le nuove riflessioni disciplinari sul suo carattere olistico e relazionale.
Un tentativo riuscito a mio avviso solo in parte, in quanto i nuovi contenuti culturali non trovano adeguato e chiaro riscontro nei contenuti strumenti proposti dalla convenzione.
La tripartizione tra paesaggi dell’eccellenza, paesaggi ordinari e paesaggi degradati offre una distinzione della quale non viene fornita la scala, finendo così per essere interpretata dagli urbanisti ancora una volta come una divisone in zone urbanistiche.
Sarebbe invece plausibile anche una lettura più ampia e coerente con la dimensione europea della convenzione. Vale a dire che la scala di riferimento per distinguere i tre tipi di paesaggio potrebbe essere anche grosso modo quella regionale o interregionale, atta a caratterizzare, ad esempio la dimensione della città diffusa della pianura veneta dal paesaggio rurale marchigiano. Dimensioni quindi comprensive delle particolari relazioni tra insediamenti diffusi,città, aree agricole, aree produttive, che possono essere giudicate complessivamente come paesaggio ordinario (la città diffusa veneta) e come paesaggio di eccellenza (il territorio marchigiano).
Questa lettura consentirebbe di fare del Piano Paesistico Regionale un Piano diverso e, in sintesi, il vero Piano. Lo strumento che, partendo da una conoscenza approfondita del territorio, definisce progettualmente i modi affinché il progetto di trasformazione del territorio sia coerente con il paesaggio di eccellenza marchigiano, valorizzandone i caratteri, curando particolarmente le relazioni tra spazio urbano e spazio rurale, la riconoscibilità della trama insediativa diffusa e delle identità locali, l’assetto insediativo ed infrastrutturale che comporta minori consumi di suolo, di energia e di acqua, ecc…, che favorisca le connessioni ecologiche territoriali, che restituisca valore ai centri storici,….
In questo modo il Piano strategico, specie se riferito ad ambiti intercomunali, diviene lo strumento di pianificazione che esplicita progettualmente i contenuti del PPAR, sotto il controllo ed il supporto delle strutture provinciali, con o senza la definizione di un PTC che , in fondo, potrebbe essere anche sostituito con un laboratorio di pianificazione ed elaborazione dati a continuo servizio delle autonomie locali e della stessa programmazione provinciale.
Riuscire a far valere questa interpretazione del concetto di paesaggio e questa fisionomia del Piano Paesistico Ambientale Regionale, accanto al riconoscimento del Piano strategico come vero e proprio progetto del territorio, può consentire di fare un deciso passo avanti verso una politica territoriale qualificata ed in linea con le più avanzate realtà europee.
In caso contrario ogni tentativo di puntualizzazione, di calibratura , dei documenti in discussione, non riusciranno a modificare l’avanzata della città infernale, poiché, come constata il Kublai Khan di Calvino “è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.
I due processi di revisione sono tenuti separati sebbene non siano affatto indipendenti, ma al contrario siano strettamente correlati, soprattutto intorno alla riflessione sul senso e gli obiettivi del pianificare.
Nelle diverse opinioni che timidamente si fanno avanti rispetto alla prima stesura della legge urbanistica regionale la questione strumentale fondamentale sembra essere generalmente condivisa: la necessità di separare il livello della pianificazione da quello della gestione attraverso l’introduzione del piano strategico e del piano operativo.
Gli urbanisti, anche per bocca dell’INU, mettono l’accento sulle nuove opportunità strumentali, tecniche e giuridiche, legate alla perequazione ed alla riduzione del valore degli espropri. Soluzioni gestionali che consentirebbero di dare maggiori energie economiche agli enti locali e di incrementare e qualificare gli spazi di servizio pubblico.
Gli urbanisti quindi, anche per la richiesta pressante delle pubbliche amministrazioni che soffrono di una generalizzata difficoltà nel chiudere i bilanci annuali, pongono il massimo interesse nel piano operativo, più che sul piano strategico, come ambito entro il quale ricercare il miglioramento del governo del territorio e al contempo consentire maggiori entrate alla casse comunali.
Il piano strategico resta sempre più confinato in un ambito di decisione politica (la definizione degli obiettivi) dove gli urbanisti mostrano di non voler entrare, se non per qualche modesto stimolo all’inserimento di prassi partecipative e valutative come riflesso delle specifiche direttive europee.
Sui motivi di questo disinteresse e sull’attribuzione della responsabilità delle scelte strategiche alla mera dimensione politica occorre riflettere.
Questo atteggiamento infatti non è affatto normale o scontato, in quanto ciò che si misconosce o si tende ad eludere è proprio la competenza disciplinare dell’urbanistica nella definizione dell’assetto del territorio: dove e come espandere la città, con che logica dislocare gli spazi pubblici, le infrastrutture ed i servizi, come collocare le aree produttive. In una parola le scelte relative alla pianificazione territoriale ed all’architettura urbana sono considerate spazio decisionale della politica senza alcun riferimento ad un sapere disciplinare che ne debba verificare la validità o la coerenza.
Il misconoscimento, o per meglio dire il tradimento dell’architettura da parte degli urbanisti non deve sorprendere.
L’incarnazione in un’unica figura professionale dell’urbanista e dell’architetto era rimasta infatti una anomalia tutta italiana.
Così come la figura dell’ingegnere e dell’architetto si sono separate soltanto a partire al XIX secolo, la figura dell’architetto-urbanista è andata scomparendo in Europa a partire dal secondo dopoguerra, dove si assiste alla distinzione, già avvenuta in precedenza negli Stati Uniti, tra le figure del lanscape planner e dell’urban planner, come professionalità complementari ma distinte all’interno di gruppi di lavoro multidisciplinari che si occupano della pianificazione territoriale.
D’altra parte l’urbanistica, come disciplina che intende regolare l’uso e le possibilità edificatorie nelle aree urbane, nasce con la rivoluzione industriale per effetto del valore economico-commerciale generato dal suolo e con l’obiettivo di regolamentarne gli effetti sociali, garantendo adeguati spazi a servizio dei residenti, nell’evidenza del degrado degli slums inglesi come aspetto negativo di un liberismo incontrollato. L’urbanistica quindi vede sin dall’origine la città come un sistema le cui modificazioni sono guidate da interessi economici ed all’interno del quale vanno regolamentati i dritti privati e garantite infrastrutture di servizio utili a far funzionare al meglio il sistema stesso. C’è molto di giurisprudenza, economia, sociologia, ingegneria nell’orizzonte dell’urbanistica, ma ben poco di architettura e di paesaggio.
Tuttavia in un primo momento gli architetti hanno accolto l’urbanistica come nuova chiave di lettura di un mutazione profonda che ha coinvolto il territorio e la città con l’affermazione dell’economia di mercato, della borghesia al potere e dell’avvento della democrazia liberale. Ma il senso dell’urbanisme di Le Corbusier è ben diverso da quello che ha assunto rapidamente la pianificazione urbanistica nelle città occidentali e gli architetti, già con la Carta di Atene e nei primi decenni del secondo dopoguerra hanno dovuto prendere atto di una lontananza dell’urbanistica dall’architettura, sul piano culturale, etico ed estetico e in un certo senso anche politico.
In Italia invece, anche per effetto della presenza di una forte cultura della città insita nell’architettura, avvalorata da maestri quali Quaroni, Aldo Rossi, Muratori, Gregotti, Piccinato, De Carlo, i landscape planners e gli urban planners sono rimasti uniti nella figura dell’architetto-urbanista.
La ricerca di una “forma” della città si poggiava anche su una forte spinta verso un controllo pubblico delle grandi espansioni residenziali e produttive, attraverso i piani PEEP e PIP che si avvalevano della diffusa pratica dell’esproprio.
La progressiva affermazione dell’iniziativa privata su quella pubblica ha spostato però l’interesse dalla scelta circa la migliore localizzazione delle aree di espansione ai modi per controllare che le scelte e le individuazioni proposte dai privati fossero coerenti con l’assetto della città .
Ciò mentre l’assetto della città, l’idea stessa di forma urbana, veniva messa in discussione a partire dal piano per Palermo di Samonà, agli studi sui processi di dispersione urbana nel territorio.
L’effetto combinato di queste due situazioni, forse non casualmente contemporanee, ha soffocato sul nascere la ricerca disciplinare relativa alle nuove configurazioni urbane e territoriali ed ha concentrato l’ interesse solo sugli aspetti normativo-amministrtivi propri dell’urbanistica.
Possiamo dire che dopo la generazione dei Secchi, dei Nigro, dei Salzano, gli urbanisti hanno smesso di avere a che far con l’architettura e si sono preoccupati soltanto degli aspetti normativo-procedurali e tecnico-economici utili al governo della città e del territorio.
Nella stagione dell’urbanistica negoziata e degli accordi pubblico-privato la scelta sul dove e come costruire nasce ormai esclusivamente dall’iniziativa privata, rispetto alla quale l’avvallo o il diniego da parte dell’amministrazione pubblica, sempre più debole, è un fatto meramente politico.
Gli urbanisti non contestano questa deriva immobiliarista del processo di costruzione (se si può ancora chiamare costruzione) della città, anzi sembrano impegnarsi a trovare nuovi strumenti per far si che questo processo sedimenti e permetta una gestione efficiente del sistema.
D’altra parte sul piano professionale ormai la quasi totalità degli urbanisti sono dipendenti pubblici o professionisti di fiducia dei gestori politici degli enti locali che mai potrebbero o vorrebbero mettere in discussione le scelte operate dai politici dai quali, in un modo o nell’altro, dipendono.
Le università italiane, dal canto loro, non si sono mai caratterizzate per la volontà di rivendicare l’autonomia della ricerca rispetto alle direzioni poste dalla politica e si sono rapidamente adeguate smettendo quasi del tutto di sviluppare analisi e ipotesi inerenti i processi di trasformazione del territorio.
Non mancano neanche gli alfieri, sotto il profilo culturale, di questa stagione dello smembramento urbano. L’idea della città per frammenti teorizzata da Bohigas è il nuovo vangelo di quegli urbanisti-architetti che hanno bisogno di argomentazioni teoriche a supporto del loro operare in modo da non sentirsi in contraddizione con i loro titolo di architetti, ma semplicemente appartenenti ad una diversa (e nuova) scuola di pensiero.
I frammenti, con cui si costruisce la città senza porsi il problema di inserirli in un disegno globale, corrispondono alle possibili operazioni economico-immobiliari od alle macro-lottizzazioni. Gli ambiti cioè su cui si concentrano gli interessi immobiliari.
Sono questi semplici, cinici impulsi che disegnano la città, verso un assetto futuro non immaginato e non immaginabile, non progettato e non progettabile, carico di mistero e fatalismo.
Una città senza architettura, come dire: una montagna senza altezza, o un mare senza acqua.
La città non può non avere forma in quanto esite fisicamente come spazio costruito. Certo non è la forma geometrica della città murata o la trama ordinata delle città coloniali. E’ un'altra forma, complessa e fatta di nuovi segni e da nuove regola di composizione, ma non si può sostenere che non abbia forma.
Ne “le città invisibili” di Italo Calvino, Marco Polo riponde al Kublai Khan che gli chiede quale sia la cittàdel futuro: “Se ti dico che la città cui tende il mo viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla”.
Ma se la città senza architettura, la città degli urbanisti, è un non-senso, allora la distinzione tra l’urbanistica e l’architettura del territorio è finalmente un chiarimento, che ci riavvicina alla realtà europea.
La differenza tra la realtà Italiana e quella Europea, infatti, è oggi ancora sostanziale, perché se in Europa i landscape planners continuano a studiare e progettare le città per conto di pubbliche amministrazioni che non hanno mai delegato ai privati tale responsabilità e non hanno mai preteso che l’aspetto decisionale fosse a totale discrezione del politico incompetente, in Italia gli architetti sono stati messi da parte. I decisori politici si accordano con i propositori privati e gli urbanisti trascrivono le decisioni in piani regolatori muti – poco più che zonizzazioni - che si dedicano essenzialmente agli aspetti gestionali di natura giuridica e amministrativa.
Non è un caso che In Europa l’accordo con i privati investitori sia guidato dall’iniziativa pubblica attraverso Società di trasformazione urbana che assicura ai privati un ruolo economico indipendentemente dal dove e dal cosa prevedrà il Piano, la cui costruzione è esclusiva competenza degli architetti e delle amministrazioni che usano lo strumento dell’esproprio, coperto con gli investimenti dei privati partecipanti nella società di trasformazione.
In Italia le STU non sono mai decollate e i piani vanno avanti alla “Caltagirone” (l’imprenditore che ha fortemente orientato il disegno della Roma del futuro), dove i privati opzionano aree agricole per poi proporle come edificabili ad amministratori politici che le accolgono valutandone i vantaggi nell’interesse pubblico, quasi sempre monetizzazioni per fare cassa, nella più totale assenza di un disegno di assetto della città.
Allora la posta in gioco di fronte ala variante alla Legge Urbanistica regionale ed al PEAR è il senso stesso della pianificazione. La scelta è se le Marche vogliono assomigliare all’Europa o a Roma, se si vuole mantenere la potestà pubblica sul governo reale dei processi di trasformazione delle città e del territorio o si vuole affidarle ai Caltagirone, alle Quadrilatero, ai pool di imprese che mantengono un mercato dell’edilizia drogato dove è praticamente impossibile fare una reale politica per la casa e dove il dispendio di risorse per il malfunzionamento di città deformi è una delle vere ragioni dell’attuale crisi economica italiana.
Vero è che la discussione sulla necessità di ridare senso alla pianificazione non investe soltanto l’urbanistica, ma l’intera società italiana.
La delega ai privati nella gestione della cosa pubblica avviene in tutti i settori in cui sarebbe necessario pianificare e nei quali invece le scelte vengono prese di volta in volta, come conviene all’interesse dei privati. Nella gestione del ciclo integrato delle acque chi decide la politica di governo della risorsa idrica sono le società di servizi, che lo fanno con la logica di profitto nella erogazione del servizio, e di fronte all’emergenza idrica nessuno si preoccupa delle conseguenze di un ipersfruttamento delle risorse, così come le aziende private petrolchimiche a cui è demandata di fatto la politica energetica continuano ad orientare gli investimenti pubblici sui combustibili fossili facendo grandi affari senza preoccuparsi di certo delle conseguenze che la società dovrà affrontare per non aver investito in tempo sulle energie alternative.
E’ evidente quindi che la questione attorno alla pianificazione non può risolversi soltanto in un richiamo alla competenza ed alle buone prassi, ma è una questione culturale e politica.
L’urbanistica “accetta” questo sistema di cose laddove invece l’architettura ne incarna la “negazione”. L’urbanistica non può far altro che partecipare alla costruzione di quella che il Kublai Khan, nel libro di Calvino, definisce la città infernale, rispetto alla quale Marco Polo espone il suo punto di vista: “ L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Potremmo concludere che il primo modo è quello scelto dall’urbanistica, il secondo dovrebbe essere quello proprio dell’architettura.
Tornando alla prevista modifica della legge urbanistica regionale, l’aspetto fondamentale su cui riflettere è allora il ruolo ed il contenuto del piano strategico.
Nella visione degli urbanisti, i quali non riconoscono l’esistenza di una forma della città e del territorio e quindi non se ne occupano, il piano strategico non può che configurarsi come una enunciazione di obiettivi politici.
Questa è l’interpretazione che si evidenzia nella bozza di legge urbanistica regionale, la cui redazione è stata demandata ovviamente solo agli urbanisti.
Se una tale interpretazione fosse confermata nel testo finale della legge, dobbiamo aspettarci che la attuale situazione non cambi affatto, anzi, probabilmente si affermerà una sempre maggiore discrezionalità politico-imprenditoriale nella gestione del territorio, laddove il piano operativo permetterà ai Sindaci di azzonare il territorio a loro piacimento, senza nessuna verifica di carattere qualitativo.
Ma se riconosciamo che accanto all’urbanistica esiste una competenza disciplinare che è quella dell’architettura del territorio e del paesaggio, riconoscendo con essa l’esistenza di una forma del territorio e del paesaggio, il piano strategico diviene chiaramente l’ambito della pianificazione-progettazione del territorio e della cura del paesaggio.
In questo modo il piano strategico assume “spessore” ed importanza - appunto – strategica, perché diventa il momento in cui si attua il riconoscimento collettivo dei valori del territorio, attraverso la prassi partecipativa, e si valutano le opzioni di evoluzione dell’assetto territoriale in modo da definire un progetto condiviso di territorio e di città.
La costruzione del territorio viene così ad essere ispirata alle esigenze ed alle aspirazioni di una società civile e non un processo governato dalla somma degli interessi imprenditoriali.
Ciò che chiamiamo paesaggio torna così ad essere semplicemente la manifestazione fisica di quella costruzione e di quella società. Il termine “torna” vuole evidenziare come il concetto di paesaggio, finito impropriamente nelle mani degli urbanisti, sia stato negli ultimi anni oggetto di intollerabili sevizie e mistificazioni.
Il fondamentale emendamento che occorre quindi introdurre nella nuova legge urbanistica regionale è la definizione del piano strategico come piano-progetto che si esprime attraverso analisi ed elaborati grafici propri della disciplina dell’architettura e di competenza di un gruppo tecnico multidisciplinare guidato da architetti esperti in territorio e paesaggio, mentre il piano operativo è gestito dagli urbanisti con l’ausilio di esperti in materia giuridico-amministrativa ed economico-finanziaria.
Abbiamo accennato al legame tra il progetto di territorio (piano strategico) ed il paesaggio come manifestazione di quel progetto, ma occorre approfondire questo argomento perché il chiarimento di questo legame mette in evidenza la necessità di non dividere la revisione della legge urbanistica dalla ridefinizione del Piano Paesistico Ambientale Regionale.
La struttura della disciplina urbanistica regionale ha generato un complesso di strumenti di pianificazione che appare tanto ridondante quanto di difficile gestione, soprattutto dopo che la richiesta di “flessibilità” degli strumenti di pianificazione da parte dell’imprenditoria e della politica è stata tradotta dagli urbanisti in piani di “indirizzo”, sempre più privi cioè di cogenza normativa e di contenuti progettuali definiti.
Il Piano di Inquadramento Territoriale (PIT) individua le linee strategiche essenziali dello sviluppo del territorio, ma è nei fatti continuamente corretto e superato dalle mutevoli esigenze di un assetto socio-economico sempre più instabile e dipendente da fattori esterni, esigenze alle quali si risponde attraverso le intese Stato-Regioni.
Ne consegue che i Piani Territoriali di Coordinamento (PTC), di livello provinciale, finiscono per dover assumere una grande flessibilità in merito a scenari, soprattutto infrastrutturali, che possono mutare da un momento all’altro per effetto delle intese Stato-Regioni.
La ricerca di coerenza tra i diversi Piani Regolatore Comunale e gli strumenti di pianificazione sovraordinate si riduce quindi ad un sistema di indirizzi e direttive, facilmente eludibili proprio in quanto non impositivo, e da un apparato normativo estremamente generico e interpretabile.
Un’altra serie di Piani si definiscono, più o meno volontariamente, per la loro natura di vincolo al possibile uso del territorio. In questo insieme si collocano il Piano Paesistico Ambientale, il Piano di Assetto Idrogeologico, i Piani delle aree speciali (parchi nazionali e regionali, riserve,…).
Sebbene il PPAR non si proponga come Piano vincolistico, richiedendo una lettura analitica del territorio e consentendo margini di autonomia nella trasposizione dei valori riconosciuti in apparati normativi, la concezione del paesaggio che sottintende è culturalmente vincolistica.
La suddivisione del paesaggio – concetto per sua natura olistico – in “categorie” ed in “classi di valore”, così come l’identificazione delle “emergenze” come ambiti territorialmente definiti nei quali il paesaggio assume valore, sottintende l’idea del paesaggio come una realtà discontinua e separabile, potenzialmente compromissibile da processi di trasformazione ad esso incoerenti (ma tuttavia non messi in discussione) e quindi da tutelare laddove se ne riconosce il valore di “risorsa”, e cioè di una bene la cui perdita sarebbe grave ed irreparabile (sotto l’aspetto naturalistico, ambientale, storico-culturale).
Questa idea di paesaggio genera una serie di ambiti territoriali sottoposti a vincolo che alla stregua dei parchi naturali, appaiono come “oasi” in cui conservare quella ricchezza di valori depositati nel disegno del territorio di fronte ad un processo di sviluppo “naturalmente” indifferente, omologante e desertificante.
Esiste tuttavia da anni un vasto dibattito culturale che ha messo in discussione questa visione del paesaggio come museo o parco distinguibile territorialmente attraverso linee di confine e necessariamente alternativo ai processi di trasformazione propri delle aree urbane.
Senza entrare troppo in profondità in un ambito di discussione variegato e complesso, come quello attorno al significato del paesaggio, è sufficiente delineare due concetti che portano a considerare la visone del paesaggio propria del PPAR fuorviante e impropria.
Il primo concetto è che il paesaggio è la manifestazione sincera della realtà visibile, la quale senza dubbio si carica anche di aspetti soggettivi propri dell’osservatore, ma che tuttavia non tollera mistificazioni. Diciamo che il paesaggio si coniuga necessariamente al presente, per evidenziare il non senso dell’idea di poter “conservare” il paesaggio, in quanto questo presupporrebbe la conservazione del modo di vivere, abitare, lavorare degli stessi abitanti in una sorta di grottesco “presepe vivente”. All’idea di “conservare” il paesaggio occorre quindi sostituire quella di “rispettare” il paesaggio, che sottintende la necessità di comprenderne le caratteristiche di averne cura e di intervenire, anche innovando, con coerenza.
Il paesaggio è comunque un risultato delle nostre azioni, una conseguenza che si manifesta per ciò che è, offrendosi alla nostra analisi ed al nostro giudizio. In altri termini è improprio pensare che si possa progettare il paesaggio, ma è giusto dire che si può progettare tenendo conto del paesaggio, e questo tener conto può essere dovuto a ragioni di necessità (come per i mezzadri che hanno costruito il paesaggio agrario marchigiano) od alla capacità di comprensione del contesto in cui si colloca un progetto (come per il progettista, ad esempio, del teatro di Taormina).
Il secondo è che il paesaggio non è dato solo dall’insieme degli elementi che lo compongono ma anche e soprattutto dal modo con cui questi elementi sono disposti ed entrano in relazione tra loro, e questo modo si esplica nello spazio (forme) e nel tempo (evoluzione). Pertanto, se è vero che possiamo riconoscere delle parti dove questi sistemi di relazione sono più ricchi e più articolati rispetto ad altri, è improprio, se non in rarissimi casi, delimitare queste parti entro confini precisi.
Dove finisce, ad esempio, nel paesaggio della valle del Chienti l’ambito fluviale da quello urbano o da quello agrario? Possiamo davvero definire l’ambito fluviale indipendentemente dalla presenza degli insediamenti e delle aree agricole? Sarebbe ancora quel fiume, o la trasposizione ciò che noi generalmente pensiamo debba essere un fiume? Ogni limite apparirebbe solo funzionale a delimitare ciò che possiamo fare o non fare in un determinato ambito; ma questa, per l’appunto, è già urbanistica e non più paesaggio.
La frammentazione della lettura del paesaggio non è soltanto un errore analitico ma porta inevitabilmente alla costruzione di un paesaggio frammentato.
Se osserviamo la foro aerea di una vallata marchigiana vediamo come le zonizzazioni urbanistiche divengono sempre più paesaggio a zone: aree industriali,oasi naturalistiche, zone residenziali, enclaves agricole in attesa di trasformazione, centri storici, servizi intermodali. Non c’è traccia di una qualche continuità o relazione tra queste zone, tra loro indifferenti.
Ciò non è che la riprova dell’assurdità dell’idea che la città non abbia forma. La città, nella sua dimensione territoriale, assume la forma della zonizzazione urbanistica e genera un particolare paesaggio. Il problema è la qualità di quella forma e di quel paesaggio che, per parafrasare Calvino, chiameremo della città infernale.
La Convenzione europea del paesaggio, assunta dagli urbanisti come il punto riferimento di ogni discussione attorno al paesaggio, appare in realtà un ammirevole tentativo di sintesi tra la visone strumentale del paesaggio, cara agli urbanisti, e le nuove riflessioni disciplinari sul suo carattere olistico e relazionale.
Un tentativo riuscito a mio avviso solo in parte, in quanto i nuovi contenuti culturali non trovano adeguato e chiaro riscontro nei contenuti strumenti proposti dalla convenzione.
La tripartizione tra paesaggi dell’eccellenza, paesaggi ordinari e paesaggi degradati offre una distinzione della quale non viene fornita la scala, finendo così per essere interpretata dagli urbanisti ancora una volta come una divisone in zone urbanistiche.
Sarebbe invece plausibile anche una lettura più ampia e coerente con la dimensione europea della convenzione. Vale a dire che la scala di riferimento per distinguere i tre tipi di paesaggio potrebbe essere anche grosso modo quella regionale o interregionale, atta a caratterizzare, ad esempio la dimensione della città diffusa della pianura veneta dal paesaggio rurale marchigiano. Dimensioni quindi comprensive delle particolari relazioni tra insediamenti diffusi,città, aree agricole, aree produttive, che possono essere giudicate complessivamente come paesaggio ordinario (la città diffusa veneta) e come paesaggio di eccellenza (il territorio marchigiano).
Questa lettura consentirebbe di fare del Piano Paesistico Regionale un Piano diverso e, in sintesi, il vero Piano. Lo strumento che, partendo da una conoscenza approfondita del territorio, definisce progettualmente i modi affinché il progetto di trasformazione del territorio sia coerente con il paesaggio di eccellenza marchigiano, valorizzandone i caratteri, curando particolarmente le relazioni tra spazio urbano e spazio rurale, la riconoscibilità della trama insediativa diffusa e delle identità locali, l’assetto insediativo ed infrastrutturale che comporta minori consumi di suolo, di energia e di acqua, ecc…, che favorisca le connessioni ecologiche territoriali, che restituisca valore ai centri storici,….
In questo modo il Piano strategico, specie se riferito ad ambiti intercomunali, diviene lo strumento di pianificazione che esplicita progettualmente i contenuti del PPAR, sotto il controllo ed il supporto delle strutture provinciali, con o senza la definizione di un PTC che , in fondo, potrebbe essere anche sostituito con un laboratorio di pianificazione ed elaborazione dati a continuo servizio delle autonomie locali e della stessa programmazione provinciale.
Riuscire a far valere questa interpretazione del concetto di paesaggio e questa fisionomia del Piano Paesistico Ambientale Regionale, accanto al riconoscimento del Piano strategico come vero e proprio progetto del territorio, può consentire di fare un deciso passo avanti verso una politica territoriale qualificata ed in linea con le più avanzate realtà europee.
In caso contrario ogni tentativo di puntualizzazione, di calibratura , dei documenti in discussione, non riusciranno a modificare l’avanzata della città infernale, poiché, come constata il Kublai Khan di Calvino “è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.
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Carlo Brunelli
Etichette: Riflessioni politiche
1 Commenti:
la microglobalizzazione è deleteria per il lavoratore del settore edilizio
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