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martedì 30 ottobre 2012

Fuori dal ghetto




Tra i numerosi problemi che assillano la città di Falconara quello della sicurezza è senza dubbio tra i più sentiti dalla popolazione.
Assai diversa è tuttavia la percezione del problema nei diversi ambienti sociali, in funzione di una diversa esposizione a quella che viene vista come l’origine, se non proprio la causa, del fenomeno: l’immigrazione.
Sulla figura degli immigrati, in carenza di uno sfondo culturale che delinei la scala planetaria del recente fenomeno migratorio, si coagulano pregiudizi di opposta natura:
-         l’immigrato è un intruso pericoloso da controllare e possibilmente da espellere
-         l’immigrato è la vittima dell’ingiustizia propria dell’occidente ed è quindi nostro dovere sdebitarci attraverso azioni di filantropia

Ritengo che entrambe le posizioni, in quanto pre-giudiziali, siano fuorvianti perchè esulano da una seria analisi della situazione.
Il disagio civile associato alla presenza degli immigrati nel tessuto sociale viene dagli uni ingigantito e dagli altri minimizzato.
Se è vero che, guardando alle statistiche, la percentuale degli immigrati presenti a Falconara è inferiore rispetto a molte altre città marchigiane, la loro presenza è però fortemente concentrata nella zona nord e nei dintorni della stazione, a piazza Mazzini, in quello che consideriamo ancora il “centro” di Falconara.
Questa presenza massiccia nel centro, dovuta al degrado urbano che abbatte i costi di locazione delle abitazioni ed alla natura di nodo viario della città, incute nei vecchi residenti la sensazione che la città sia stata “invasa” da sconosciuti.
Difatti, al di là della forte presenza di negozi gestiti da immigrati che contribuiscono a vitalizzare una città da tempo ridottasi a “dormitorio”, gli immigrati e i vecchi falconaresi vivono vite parallele.
E’ assai raro vedere “italiani” entrare nei negozi gestiti dagli immigrati. Raro vedere gruppi “misti” di persone che discutono per strada. In pochissimi casi, al di là delle azioni di volontariato sociale, si assiste ad una vera normale convivenza. Si tratta essenzialmente dei luoghi di frequentazione dei bambini, come le scuole o i luoghi di pratica sportiva.
Si assiste, a Falconara come altrove, alla formazione di nuove forme di “ghetto” urbano. Un ghetto senza recinti ma altrettanto tangibile, identificabile, intollerabile.
Certo le nuove generazioni, quelle che oggi sono in età scolare, riusciranno comunque ad integrarsi, ma nel frattempo il rischio di fenomeni di degenerazione dovuti all’isolamento e al rifiuto del riconoscimento di cittadinanza per i nuovi residenti appare elevato.

Il disinnesco della dimensione del “ghetto” è legato ad un complesso integrato di politiche:
-         una politica della casa che dia risposte dignitose a chi ha necessità di alloggi a basso costo e/o di alloggi temporanei
-         una politica del lavoro che garantisca a tutti almeno la possibilità di sussistenza
-         una politica sociale che garantisca la gratuità del minimo vitale (acqua, ricovero, pasto)
-         una politica dell’accoglienza che permetta ai nuovi arrivati di conoscere e condividere le regole e le tradizioni locali continuando ad esprimere, al contempo, le proprie tradizioni di origine

Se tutti i soggetti presenti a Falconara fossero davvero oggetto di queste politiche, avremmo persone comunque impegnate in attività lavorative e/o scolastiche, avremmo persone riconosciute, identificate,  non costrette a “sopravvivere”, non indotti all’illegalità.
Se a questo associassimo anche un’azione volta a riportare i “vecchi cittadini” a frequentare la piazza, ad uscire la sera perchè i locali di ritrovo restano aperti e promuovono iniziative sociali, la riappropriazione degli spazi della città porterebbe ad una netta diminuzione della sensazione di insicurezza, alla scoperta che l’immigrato altri non è che un concittadino da conoscere.

Ma da dove possiamo cominciare? Come possiamo affrontare questo complesso di cose?
Esporrò qui alcune soluzioni possibili. Ma occorrerà poi lavorare per fare in modo che queste soluzioni si integrino tra loro, creando sinergie che permettano di risparmiare le energie necessarie.

Prima però è bene fare un’ultima considerazione: la attuale crisi economica, che è una crisi strutturale non transitoria, sta ponendo un nuovo elemento nella relazione problematica sicurezza – immigrazione: la nuova povertà legata alla mancanza di lavoro che sta colpendo pesantemente anche i “vecchi cittadini”, gli “italiani”, estendendo ad un crescente numero di persone e nuclei familiari gli stessi disagi e le stesse esigenze fino a ieri confinate nell’ambito degli immigrati.
Una risposta parziale, una risposta insufficiente al fenomeno che abbiamo di fronte espone al rischio concreto che si inneschi ancora la “guerra tra poveri” che vede gli italiani rivendicare il diritto di prima scelta sull’immigrato, fomentando, nelle categorie sociali più esposte e non tutelate (lavoratori autonomi, artigiani, commercianti), derive razziste altrimenti assenti dal sentire della gente.
Ciò fa sì che sia limitativo oggi pensare solo ad una politica dell’accoglienza,  dovendoci ormai porre di fronte all’urgenza di una politica dell’esistenza, una politica che garantisca a tutti una vita dignitosa. Il problema della sicurezza e il problema degli immigrati si risolvono quindi solo all’interno di un nuovo progetto sociale.

Case a basso costo, case temporanee

La presenza degli immigrati, la diffusione delle nuove povertà, stanno ponendo alle nostre città richieste alla quali esse non sanno rispondere. Il mercato delle abitazioni, lievitato in modo mostruoso nei decenni passati, non sa offrire residenze a basso costo se non in situazioni di degrado urbano e di abbandono.
Se l’imponente fenomeno migratorio degli anni 50 e 60 ha visto sviluppare in Italia i quartieri di edilizia popolare, i PEEP, l’edilizia convenzionata riuscendo, seppur con più ombre che luci, a rispondere ad una esigenza sociale, la nuova ondata migratoria composta in prevalenza da stranieri non è stata accompagnata da politiche adeguate. Non è stata gestita dal Paese.
Nelle università di architettura europee si elaborano da anni possibili soluzioni per favorire una esistenza dignitosa ai nuovi arrivati, favorendo la socializzazione e l’integrazione. Soluzioni che rispondano all’esigenza di un ricovero essenziale, di alloggi temporanei.
Le università italiane non sembrano essere partecipi di questa ricerca. Neanche lo sono le amministrazioni pubbliche.
Esistono esperienze, anche molto interessanti, ma sono lasciate, come accade in ogni campo di attività in Italia, all’iniziativa sporadica di singoli valenti “visionari”.
In Calabria, a Cassano all’Ionio, è nata una casa per immigrati, su iniziativa della Coldiretti e di una ONLUS locale, destinata ai braccianti impiegati in agricoltura (si chiama “casalarocca”).    
A Calenzano, vicino a Firenze, il Comune ha realizzato una “Residenza di Primo Inserimento” che associa alloggi per famiglie con quote di abitazioni temporanee.
A Manfredonia la Regione Puglia ha programmato la realizzazione di “case fai da te” per migranti.
Altre amministrazioni comunali, come quella di Ravenna e di Cesena, portano avanti progetti per quartieri da realizzare in autocostruzione per rispondere insieme alle esigenze degli immigrati e dei nuovi poveri.
Come potremmo applicare queste esperienze a Falconara?
Esistono a mio avviso diversi livelli di intervento: mirare alla riduzione del costo delle abitazioni, favorire il recupero dell’esistente con modalità di autocostruzione, creare un centro integrato di alloggi temporanei e case-famiglia.
Se i primi due livelli attengono espressamente alla politica della casa  (affronteremo il tema in un’altra occasione), il terzo è qualcosa di nuovo. Qualcosa che non può riferirsi agli spazi della città esistente ma richiede l’ideazione di un luogo che non c’è.
Eppure è proprio questo livello che più di altri investe il problema dell’immigrazione e della sicurezza così come si manifesta in modo specifico a Falconara, città di passaggio, città temporanea per sua natura.

Pensare un centro integrato di abitazione temporanea e di accoglienza significa presupporre un nuovo insediamento perchè la costruzione di una parte di città con caratteristiche relazionali complesse e specifiche richiede una “forma” appropriata, a meno che non si disponga già di uno spazio adeguato.
Se pensiamo ad un luogo di abitazione collettiva di persone che non si conoscono e che devono pertanto imparare a vivere assieme, possiamo attingere da un repertorio storico di modelli: il convento, il campus, il falansterio, la caserma...
La caserma è di fatto la riproduzione semplificata di una città, dotata di servizi, flessibile, adatta a funzionare nel ricambio continuo delle persone che la abitano.
Se analizziamo i campi profughi diffusi nel mondo, che i migranti si costruiscono da soli ai margini delle città, o se ci riferiamo ai borghi medievali sorti fuori dalle mura, notiamo evidenti affinità con la logica distributiva degli spazi e delle funzioni propria delle caserme.
A Falconara abbiamo una caserma dismessa; la ex Caserma Saracini. Uno spazio grande, integrato alla città ma anche sufficientemente defilato.
Immaginiamo di togliere il muro di cinta, di ristrutturare le camerate per ricavarne stanze d’abitazione dotate di bagno e cucina essenziali, alloggi per famiglie, spazi di relazione, ma anche piccoli negozi, botteghe artigiane accessibili a tutta la città. Immaginiamo di riattivare la mensa, il cinema, gli impianti sportivi. Immaginiamo di realizzare giardini e spazi gioco per i bambini.
Togliendo le persone dalla ex montedison o da altre situazioni di clandestinità, dalle case da 60mq lungo la via Flaminia affittate a oltre dieci persone, potremmo anche favorire l’identificazione delle persone che vivono nella nostra città, coinvolgerle in percorsi di integrazione, rendere più “sicura” Falconara.



Ma la caserma e’ nella disponibilità del Comune? E dove troveremo i soldi per una ristrutturazione? Come potremo gestire quello spazio?
La risposta non è certo facile, ma è semplice, perchè si può ridurre in due parole: progetto e impegno.
Occorre elaborare un progetto, credere in un progetto, e sottoporlo con forza alla Regione ed al Governo. Occorre dimostrare che i costi di investimento sarebbero comunque assai inferiori ai costi dell’inerzia, all’esplosione futura del problema. Un investimento virtuoso, in cui coinvolgere anche le forze sociali, economiche e finanziarie, le organizzazioni del volontariato.
Occorre lavorare duro per costruire insieme l’iniziativa. La possibilità, la concretezza, dipende dalla nostra volontà e dalla nostra determinazione.


Un lavoro per tutti: il lavoro sociale

Il progetto pilota del centro integrato di abitazione temporanea e di accoglienza alla caserma Saracini è già stato avanzato tempo fa da Don Giovanni Varagona, parroco della chiesa della Madonna del Rosario.
Non so se quella proposta si riferiva ad uno spazio di assistenza o ad un vero e proprio spazio urbano, una parte di città, così come la immagino. Uno spazio che si gestisce da se attraverso risorse non derivanti dal bilancio dello stato per l’assistenza sociale ma create dagli stessi fruitori attraverso il loro lavoro.
Il lavoro è alla base della nostra costituzione, è l’oggetto su cui si stipula il patto sociale tra gli individui e lo Stato, attraverso il quale gli individui divengono cittadini. Il lavoro è un valore ed un diritto dei cittadini.
Una società civile è una società che garantisce a tutti il lavoro e che , attraverso il lavoro, garantisce una vita dignitosa a tutti.
Chi paga l’alloggio degli immigrati, dei poveri, dei nullatenenti? Lo dovremmo pagare noi? No, devono essere loro, i fruitori, a pagarsi l’alloggio attraverso il lavoro. Soltanto così offriremo loro la dignità e la vera cittadinanza.
La soluzione è nel lavoro sociale. Un’attività di alcune ore al giorno a servizio della comunità in cambio della garanzia di un ricovero, del pasto, dell’acqua, dell’igiene e dell’assistenza sanitaria.
I lavori sociali servono perchè nessuno oggi li fa: la pulizia dei fossi, delle pertinenze delle strade, dei marciapiedi, sia per conto del pubblico che del privato.
Il lavoro sociale va “alimentato” con nuove assunzioni di responsabilità dei cittadini nella manutenzione ordinaria degli spazi comuni prossimi a quelli privati, scaricando così il Comune da parte delle spese. Sistemarsi il marciapiede davanti casa, la buca in strada dove parcheggiamo l’auto, dovrebbe essere una prassi di civiltà e un’occasione di lavoro sociale per le persone disoccupate e in cerca di un impiego.
Il lavoro sociale va anche favorito – e il centro integrato di abitazione temporanea e di accoglienza è il luogo ideale per farlo – attraverso la formazione professionale e le politiche rivolte ai mestieri “minori”, per lungo tempo abbandonati ma oggi tornati di utilità, come il recupero dei materiali di scarto, la riparazione, l’artigianato di servizio, la produzione di materiali per la bioedilizia (mattoni e intonaci in argilla cruda, pannelli isolanti con materie vegetali, cannucciaie,...)

Il minimo vitale

Se la locazione dell’alloggio temporaneo può essere compensata con il lavoro sociale, come possiamo però garantire l’acqua e i pasti?  Non rappresenterebbero anche questi un costo insostenibile per le disastrate casse comunali?
Anche qui dobbiamo anteporre al problema operativo la convinzione sulla validità del principio.
E’ giusto dire che in una società civile tutti devono essere messi nelle condizioni di poter vivere? E per vivere non abbiamo forse esigenza di bere e di mangiare?
Se su questo siamo d’accordo, il come fare poi lo determiniamo. Ci vorrà fatica, lavoro, ma la soluzione la troviamo.
L’acqua gratuita fino alla quantità vitale, ad esempio 30 litri a testa, può essere garantita semplicemente ricaricando l’entrata mancante sui consumi superiori, incrementando il costo della bolletta. Alla fine, per una famiglia media, questo non dovrebbe modificare la spesa complessiva per l’erogazione del servizio, scaricando sulle grandi utenze il costo della gratuità della quantità minima vitale.  
Per l’erogazione di pasti gratuiti, occorrerebbe semplicemente coordinare una rete tra i supermercati e i negozi, per raccogliere i prodotti in scadenza, i laboratori artigiani per avere i surplus di produzione. Se raccogliessimo quotidianamente tutto il cibo che viene buttato potremmo sfamare un’altra Falconara.  Si tratta solo di volerlo e di organizzarsi, con l’aiuto dei volontari ma soprattutto con il coinvolgimento operativo degli stessi fruitori.

L’accoglienza

Il centro integrato di abitazione temporanea e di accoglienza alla Caserma Saracini, va visto come il cardine di un vero e proprio processo di rinnovamento sociale.
I gruppi del volontariato, che oggi sono chiamati a tappare le falle di una società civile incapace di gestire la situazione, devono riportare la loro esperienza e la loro attività all’interno di una programmazione propria dell’amministrazione comunale.
E’ la comunità civile, l’istituzione statale, che deve diventare artefice delle scuole di italiano, dell’assistenza familiare, della formazione ed educazione dei ragazzi, secondo principi di laicità e libertà culturale.
Il Comune, col contributo delle associazioni e dei gruppi di cittadini, deve teorizzare, programmare ed attuare presso gli immigrati la promozione della storia e delle tradizioni locali, ma anche assicurare la possibilità di esprimere le tradizioni e le culture di origine, favorendo l’incontro e la reciproca conoscenza all’interno della comunità civile.
Ciò va svolto attraverso le scuole e le politiche culturali, ma anche attraverso specifiche iniziative, come il sostegno e l’aiuto alla costruzione di spazi dedicati alle diverse pratiche religiose (moschea, chiesa ortodossa,...)in luoghi non marginali della città; luoghi di scambio culturale; gruppi per la pratica di sport o attività tradizionali (il cricket per indiani e bengalesi, la musica e la danza per le comunità rumene e balcaniche).
Dobbiamo ricordare, a tale proposito, che la musica e lo sport sono “linguaggi” primari per favorire la comunicazione e l’integrazione sociale.

Rivivere la città

L’incontrarsi di due soggetti implica che entrambi si muovano l’uno verso l’altro. Se da un lato occorre quindi favorire l’ingresso degli immigrati nella società civile, promuovendo la coscienza del rispetto delle regole e la conoscenza delle tradizioni locali, dall’altro lato sono anche i “vecchi falconaresi” che devono essere indotti ad uscire dalle case, dalla loro sfera privata, e ritornare a frequentare lo spazio pubblico. 
Questo processo può essere attivato attraverso sgravi fiscali ai negozi che aprono la sera e/o che fanno musica e spettacoli; attraverso la possibilità di realizzare gratuitamente i dehors; attraverso la creazione di consorzi per ogni via o parte di città in modo da qualificare l’immagine ed il servizio offerto, secondo il principio dei centri commerciali naturali.
I negozianti e i gestori devono assumere il ruolo di veri e propri operatori culturali. Le attività promosse devono far parte integrante del cartellone delle manifestazioni comunali.
Sarà questa nuova attività a portare loro interesse anche economico, attraendo gente dalle città vicine. Una città viva determina un mutuo interesse: pubblico e privato.

La riqualificazione delle aree in degrado

L’offerta di soluzioni alternative all’abitare temporaneo ed a basso costo può alleggerire la concentrazione di immigrati nelle zone degradate della città, evitando la degenerazione nel ghetto, ma non elimina le cause del degrado.
La riqualificazione delle aree del degrado è legata alla soluzione di altre problematiche che si approfondiranno: la raffineria e le industrie a rischio, la ferrovia litoranea, il traffico veicolare, il mercato immobiliare, il ruolo dei privati nei processi di trasformazione del territorio....
Deve però risultare chiaro come la soluzione dei problemi non possa essere affrontata con politiche settoriali ma deve derivare da un complesso sistemico di politiche integrate, da condurre assieme.
Solo affrontando l’insieme delle questioni si può sperare di risolvere la singola questione.
Questo impone la necessità di una capacità di visione e di una coralità l’azione ben diverse dal modo con cui le parti chiamate al governo della città hanno finora concepito l’attività politico-amministrativa.

8 Commenti:

Alle 31 ottobre 2012 alle ore 09:06 , Anonymous Anonimo ha detto...

Difficile integrare cio' che gia' cosi' esaustivamente hai descritto. Una piccolissima cosa per le piccole attivita' commerciali e non e' l'odiatissima tassa sulle insegne luminose e non . Paolo

 
Alle 31 ottobre 2012 alle ore 17:42 , Anonymous Anonimo ha detto...

Ho riletto attentamente quanto da te così sapientemente scritto.Vorrei perciò fare delle riflessioni critiche su alcuni punti da te così bene argomentati. Andrò perciò seguendo di pari passo la tua elaborazione,per sottolineare, a mio modo di vedere, i punti deboli e le perplessità che essa suscita, in modo spero costruttivo o così comunque è nelle intenzioni.
E' vero la crisi economica, oserei dire, non è in atto ma si è appena affacciata ancora dalla porta. Essa si presenterà in tutta la sua cruda realtà nei prossimi 5-6 anni o per quanto tempo nessuno lo sa dire. Tra le categorie lavorative saranno proprio i lavoratori autonomi, i commercianti, gli artigiani a pagare il prezzo più alto (dopo quello che hanno già pagato gli operai ai quali nei prossimi mesi finiranno le casse integrazioni senza che che essi siano riassorbiti dal mercato del lavoro in altro modo)e quanto più piccola l'impresa, ancorchè personale, quanto più essa sarà destdinata a chiudere i battenti. Spesso sono state queste categorie che hanno maggiormente stretto rapporti lavorativi od anche di semplice collaborazione spicciola con chi straniero oextracomuinitario dando vita a parte di quell'integrazione da noi tutti auspicata. Che la guerra dei poveri scatenata da questa crisi sia sufficiente ad additare questa categoria come quella a più probabile sfondo razzista mi sembra una forzatura ingiustificata. Tanto più che le intolleranze, a mio modo di vedere o per quanto ne abbia la percezione, ne derivano proprio dall'indifferenza di chi, avvalendosi di sicurezze e tutele dovute, mira solo a difendere i propri diritti acquisiti, quelli sì sicuramente minacciati dal "diverso" che incombe.
L'idea della caserma centro integrato di abitazione temporanea e di accoglienza. Potrebbe essere una buona idea (anche dai risvolti talora interpretabili cvome furbeschi). Potrebbe. Il rischio è che da una situazione di quartiere ghetto nella città si passi alla città ghetto nella città tuttavia esiste e non è poi così pregiudizievole paventarlo. Il modello di integrazione a cui si dovrebbe aspirare, secondo il mio punto di vista, è distributivo e quantitativo.Così come non ci può essere un unica scuola elementare cittadina ove la quasi totalità degli alunni è extracomunitaria, ma ci dovrebbe essere una quota per ogni scuola, così anche dqal punto di vista abitativo gli stranieri dovrebbero essere distribuiti su su tutto il territorio cittadino. Occorre stabilire se parliamo di immigrati regolari o nomadi stanziali. Il lavoro sociale è pensato forse solo per la seconda categoria altrimenti non potrebbe essere. A meno di non tollerare l'immigrato irregolare. UIl punto è che, oltre al criterio distributivo, è necessario adottare anche un criterio quantitativo. Quanti immigrati possiamo accogliere?. Questo va stabilito con chiarezza : c'è un limite quantitativo perchè altrimenti ciò rende giustificabile l'obiezione per cui come comunità non possiamo farci carico delle povertà del mondo. Pensarlo realmente non mi rimanda ad uno spirito cristiano-francescano, ma ad un pensiero tutto borghese di chi ha perso la propria identità nell'affermazione del tutto e nella negazione del tutto persino di se stessi al fine di riscattare la propria anima ove la necessità di espiare tutte le proprie colpe di occidentali. Ma io come tanti altri non sono mai stato un colonialista. In gran parte dei paesi da cui provengono gli immigrati non vige la democrazia. Spesso la religione e la dittatura hanno condizionato il loro sviluppo e la loro condizione. Questo per dire che chi ha il merito di riscattare la propria condizione di sfavorito, nel mio modello democratico, ci piaccia o no,di civiltà, nella mia terra, acquisisce il diritto di diventarne cittadino rispettandone le leggi, di questa terra,ed anche glu usi e costumi. Questo significa essere cittadini del mondo. (segue)

 
Alle 31 ottobre 2012 alle ore 17:46 , Anonymous Anonimo ha detto...

(segue)La pretesa di accogliere chicchessìa, in numero indeterminato, tollerando la sua mancata capacità di integrazione (essendo biunivoco il problema) o addirittura considerarlo, in quanto bisognoso, prioritario rappresenta, a parer mio, solo il riscatto tutto borghese di una comunità paranoica ed involuta che ha finito per odiare se stessa. Ed io cre ancora nell'insegnamento di Gesù : " Ama il prossimo tuo come te stesso", non "come se stesso" perchè altrimenti sarebbe una spersonalizzazione e questo Gesù non lo pensava o almeno credo. Ora devo andare ciao Paolo

 
Alle 1 novembre 2012 alle ore 11:01 , Anonymous Anonimo ha detto...

Concordo con te Paolo.
La questione è complessa, articolata e serve una regolamentazione seria.
E' vero che l'integrazione vera è quella che vede i nuovi cittadini distribuiti il più possibile nel tessuto cittadino, ma è anche vero che esistono momenti e situazioni successive.
In primo luogo il centro di abitazione temporanea ed accoglienza non è la soluzione del problema, ma la risposta all'impatto di chi è appena arrivato o di chi, al di là dell'essere o meno immigrato, si trova a non avere alcuna possibilità di mantenersi una vita dignitosa (e con la disoccupazione che arriverà al 20% sarà molto facile che accada). Il Centro assomiglia ad un Porto, nel quale si arriva, si prende contatto con la città che ti ospita, si ha tempo per trovare un lavoro o per spostarsi in un'altra località. Quando poi si decide di restare e si ha lopportunità di farlo, allora le risoste devono essere ovviamente altre, come tu dici.
Sono d'accordo anche nel fatto che ci debba essere un controllo numerico (non fiscale ma ragionevole) tenendo però conto anche della "natura" dei luoghi. Falconara è per sua natura un luogo di scambio e relazione (proprio come un porto per chi va in mare), per questo sostengo che il Centro di abitazione temporanea ha particolarmente senso proprio a Falconara. Ma è evidente che la Regione, nel quadro di questa funzione assolta dalla città, dovrebbe sostenere economicamente lo svolgimento di questa importante mansione nel territorio.
Quanto al rischio che anche il centro si traformi in un ghetto questo dipende da quanto la città sarà partecipe della sua gestione e sarà in grado di matabolizzare la sua presenza. Ormai si è compreso, da parte di chi studia questi aspetti da molto tempo, che la dimensione del "borgo", cioè di un luogo di mediazione tra l'immigrato e la città, è la dimensione preferita proprio dai nuovi arrivati perchè rende meno esposti, dà il tempo di "imparare" ad entrare nella nuova comunità. Il borgo diventa una parte della città (come in tutte le nostre città storiche) quando la città lo riconosce parte di se stessa. Diventa ghetto in caso contrario.

Carlo

 
Alle 3 novembre 2012 alle ore 16:03 , Anonymous Anonimo ha detto...

Una proposta ( se e' cretina non lo so, dimmelo tu) : si fa il censimento per ogni singolo quartiere di Falconara delle case tenute sfitte o invendute da molto tempo. Si offre la possibilita' ai proprietari di affittarle a famiglie straniere, fissando ovviamente un tetto di recettivita' per immigrati di quel quartiere, abbonando il pagamento dell' IMU al proprietario ) che ovviamente corrisponde ad un'aliquota per seconda casa e facendo impegnare la famiglia straniera a rispettare le regole di convivenza (concedendo nel contempo tutta una serie di agevolazioni alla famiglia) pena la perdita della casa e dei diritti acquisiti. PAOLO

 
Alle 8 novembre 2012 alle ore 21:18 , Anonymous Anonimo ha detto...

Porre una relazione tra la disponibilità di abitazioni inutilizzate e la tassazione sugli immobili mi sembra una strada molto interessante. Occorrerebbe a mio avviso meditare sul fatto che la tassa non dovrebbe essere legata tanto alla proprietà del bene quanto al suo mancato utilizzo. Se partiamo dalla considerazione che la casa occupa suolo e comporta dei costi sociali, il suo non utilizzo è contro l'interesse collettivo. Io quindi tasserei fortemente le abitazioni non utilizzate e ridurrei, fino anche ad azzerare, la tassazione per quelle occupate. Questo favorirebbe anche la ripresa del mercato edilizio senza necessità di costruire altri edifici. Quanto al vincolare la locazione delle abitazioni riutilizzate a stranieri o extracomunitari mi chiedo se sia davvero opportuno o sia preferibile lasciare libero il mercato con eventualmente un intervento del Comune come "garante" dei soggetti che si trovassero a dover subire atteggiamenti di rifiuto da parte dei proprietari. Ritengo si debba superare il concetto di fare una politica per gli stranieri andando nella direzione di sviluppare una politica per le persone in stato di necessità, senza distinzioni di provenienza, nazionalità o tantomeno razza.
Carlo

 
Alle 11 novembre 2012 alle ore 22:33 , Anonymous Anonimo ha detto...

Puoi entrare maggiormente nello specifico riguardo la funzione di garante del comune nei confronti dei proprietari? Ovviamente il riferimento agli stranieri era in relazione alla loro piu' equa distribuzione nei vari quartieri che secondo me favorirebbe l'integrazione che non c'e. Le politiche verso chi e' svantaggiato sono secondo me un discorso diverso che va affrontato diversamente. Abbiamo dunque due tipi di problema : l'integrazione e la marginalita' e non necessariamente essi sono sovrapponibili. Paolo

 
Alle 13 novembre 2012 alle ore 11:38 , Anonymous Anonimo ha detto...

Paolo, parto dalla fine. Quando penso ad una politica per le persone in stato di necessità mi riferisco all'esperienza maturata in questi anni di volontariato alla tenda di Abramo. Lì ho avuto modo di osservare come la fratellanza scaturisca da un "sentimento comune". Non so se ricordi i tempi del terremoto o altre situazioni in cui ci si sente davvero "tutti sulla stessa barca"... è proprio quel sentimento comune, quell'esperienza, a unirci, a farci sentire fratelli. Lo stato di necessità, la povertà, ha questo potere straordinario di accomunare le persone. Al di là delle situazioni di conflittualità che inevitabilmente può anche scatenare, le persone in stato di necessità si sentono "simili" le une alle altre. Tra il nullatenente e il borghese benestante esiste invece una diffidenza difficile da superare. Per questo dico che - a mio modesto parere - l'accomunare lo straniero all'"italiano" nella condizione di necessità è la migliore pratica di integrazione possibile. Quanto invece alla figura di "garante" data dal Comune si potrebbe esplicare in prima istanza nella copertura economica (o nel recupero attraverso la detassazione) di eventuali insoluti del locatario, ma anche nella regolazione delle controversie, nell'assistenza e nella vigilanza, in modo da mettere il proprietario dell'immobile al riparo da problemi nella gestione del suo bene.
Carlo

 

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