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mercoledì 14 settembre 2016

siamo ancora vittime della rivoluzione borghese

Quando la borghesia francese si sentì tanto più forte ed attuale della stanca casta nobiliare, che governava tra il lusso e l'accidia la nazione, scatenò la rivoluzione.
Sì, fu il popolo affamato ad assaltare la Bastiglia, ma il fatto che quell'assalto si tramutò in successo dipese dal fatto c'era la ricca borghesia che aveva già occupato tutti i centri del potere economico e sociale.

Ci volle poco perchè dietro l'egalitarismo e il fraternarismo gridato a gran voce emergesse su tutte il "liberismo". La libertà significava soprattutto la possibilità per tutti, senza distinzione di nascita, di raggiungere i vertici del potere. Per tutti quelli cioè che se lo potevano permettere.
Al dominio della nobiltà successe così il dominio dell'economia. Nulla cambiò nel destino dei diseredati, solo la teorica possibilità di poter diventare un giorno ricco, e quindi sovvertire il proprio destino da sfruttato a sfruttatore, da svantaggiato a privilegiato. Ma la logica del potere restava la stessa.
Tuttavia i borghesi temevano il popolo. Ne conoscevano la furia anarchica e iconoclasta.
Come fare quindi per rispettare la teorica libertà di ogni cittadino di potersi affermare all'interno della società ma fare in modo di conservare il potere, la ricchezza e il privilegio?
Se, come avveniva nelle assemblee della rivoluzione parigina, tutti i cittadini partecipavano allo stesso modo alla vita democratica sarebbe certo accaduto che i poveri avrebbero visto i ricchi, ben vestiti e colti, come dei privilegiati, li avrebbero indicati come approfittatori del popolo, e dal conflitto che ne sarebbe certamente seguito sarebbero usciti come vincitori perché numericamente più forti.
"Come gestire quindi il conflitto sociale senza correre il rischio perdere il potere?" si chiesero i borghesi.
Tanto più si fosse affermata l'uguaglianza culturale di tutti i cittadini, tanto più si fosse alimentata la partecipazione diretta di tutti i cittadini alla vita politica, tanto più aumentava la probabilità che i borghesi restassero travolti dal popolo che rivendicava una uguaglianza e libertà pari alla loro.
Occorreva costruire una regola del gioco che ponesse un filtro tra la nuova classe borghese e quello che fu definito, in modo pittoresco ma realistico, il proletariato. Quelli che non possedevano altro che i propri figli.
Fu allora che venne creata la democrazia rappresentativa, che nacquero i partiti come soggetti istituzionali (prima i partiti si formavano e si scioglievano attorno a singole questioni), che si formarono i sindacati.
Fu la condizione dettata dai borghesi nel gestire il confronto con il popolo. La stessa soluzione che avevano adottato i borboni a Napoli per gestire la rivolta popolare: "Parleremo con un vostro rappresentante" dissero, e Masaniello salì a palazzo venendo ben presto irretito, corrotto, dalla bella vita dei potenti.
I borghesi formarono così una serie di soggetti istituzionali - offrendo loro taciti ma consistenti privilegi - con cui potevano mantenere rapporti e comunicare attraverso di loro con il popolo senza mai doversi confrontare "faccia a faccia".
Sa ai borghesi interessava creare una legge che togliesse diritti ai lavoratori, metteva in moto i partiti che argomentavano quella legge in parlamento e ottenevano il consenso attraverso la capacità politica e il coinvolgimento, a vario livello, delle opposizioni e perfino dei sindacati. La polizia infine era la garante estrema del mantenimento del gioco dentro il campo stabilito e con le regole stabilite, fuori dalle quali c'è il terrorismo e la galera. Libertà, uguaglianza e fraternità sì, quindi, ma dentro precisi limiti entro cui si poteva così conservare il potere nelle mani di una classe dominante.
E il popolo, da più di due secoli, gioca al gioco dei borghesi
E' per questo motivo che di fronte al job act il popolo se la prende con Renzi (e prima se la prendeva con Berlusconi), con l'imbarazzo dei capi del sindacato, e talvolta arriva a scontrarsi con la polizia nelle strade ma mai si sente di dover andare a guardare in faccia i finanzieri e i grassi borghesi, i potenti a vario titolo e grado, mandanti di quelle azioni politiche, che se ne stanno tranquilli e beati nelle loro ville dorate. 

E' la stessa cosa che succede a Falconara con la questione dell'inquinamento generato dall'Api. La gente - troppo poca per la verità - si ribella alla condizione che impone di respirare sostanze cancerogene attaccando le istituzioni, il Sindaco, l'Arpam la Regione e chi è preposto alla tutela della salute. Forse, per disperazione, sarà disposta anche a scontrarsi con la polizia per difendere il proprio diritto alla salute, ma non osa neanche pensare di andare a casa di chi è il primo artefice di quella situazione.
Il padrone, il borghese arricchitosi stante quello stato di sofferenza del popolo, se ne sta nella propria tenuta a poche decine di chilometri da Falconara, sicuro del fatto che il sindaco, i politici, i sindacati, la polizia faranno ciò per cui sono pagati. Sicuro del fatto che il popolo non è in grado di raggiungerli, non è in grado di vederli...perché c'è sempre qualcuno, che si chiami Masaniello o meno, che si alza tra la folla e punta il dito altrove. E nessuno saprà mai se quel dito punta lontano dalla casa del padrone per paura, ignoranza o perché così è deciso che sia.



martedì 6 settembre 2016

tra santi e siacalli

Sono trascorse appena due settimane dal terribile terremoto dell'alta valle del Tronto e sembra siano già passati mesi. Forse è la risacca dell'onda emotiva o forse è perché sono state dette tante, troppe parole in queste due settimane. Parole già sentite dopo l'Emilia, dopo L'Aquila, e prima ancora dopo l'Umbria, dopo l'Irpinia e il Friuli...
Siamo stati inondati di immagini di santi ed eroi. Ci siamo gonfiati il petto di orgoglio nel vedere la dignità del popolo degli appennini. Ma siamo stati inondati, senza rendercene conto, anche dagli sciacalli... Non quei maledetti disperati sciacalli che vanno a frugare nelle case semidistrutte. Parlo degli sciacalli in doppio petto, benestanti e talvolta famosi.
Tra questi l'ultimo livello, quello più umile e coatto, è quello dei tecnici che si scagliano gli uni contro gli altri armati per ottenere un briciolo di considerazione in più (che si tramuti in qualche incarico in più) nel lungo e ricco iter della ricostruzione. Geologi contro ingegneri. Architetti defilati, come sempre, ma che pure prendono schiaffoni nella bagarre. Geometri che si intrufolano tra i contendenti. Una scena che si ripete, da decenni, dopo ogni catastrofe ambientale.
Ma i tecnici sono, come dicevo, l'ultimo livello. Il livello che riempe le pagine dei giornali e i dibattiti televisivi. Il livello che corrisponde a quella classe dirigente che non è lì per risolvere i problemi ma per accollarsi la responsabilità di tutto, anche di ciò che non è loro obiettiva responsabilità e rispetto a cui dovrebbero considerarsi piuttosto vittime predestinate.
Il primo livello di sciacalli se ne sta nascosto a spartirsi ciò che l'ennesima sciagura muoverà in termini di finanziamenti pubblici dati in emergenza  e per questo molto meglio "gestibili".
Il primo e più alto livello è invece quello a cui accenna la redazione di Charlie Hebdo in risposta al legittimo sdegno degli italiani verso la vignetta sul terremoto che nulla ha di satirico e molto di quel genuino cattivo gusto in salsa sciovinista, tipicamente francese. E' il livello della politica. Perché la responsabilità del disastro di Amatrice non è del terremoto, che accade per natura, né in generale degli "uomini", come disse il vescovo per scagionare il ruolo di Dio nella vicenda, ma di "alcuni uomini". Quelli che decidono come impegnare i soldi pubblici, che scelgono quotidianamente tra le ragioni dell'economia, quelle del benessere dei cittadini e quelle della conservazione del loro potere.
L'immagine che riporto in questo post e che rappresenta Pescara del Tronto distrutta vista dall'alto è esplicativa di quanto affermo.
Il paese appare sovrastato da un ardito quanto impattante viadotto stradale che collega la piana di Norcia con la Salaria in direzione Ascoli. Quella strada fu decisa credo circa 25 anni fa.
Nei primi giorni del secolo giravo per Pescara del Tronto nell'ambito dello studio del sistema insediativo per il Piano del Parco dei Sibillini. Il paese era già malmesso e in alcuni punti pericolante senza bisogno del terremoto. A quell'epoca erano già avvenuti i terremoti del Belice, dell'Irpinia, e del Friuli. Era appena avvenuto quello umbro che aveva colpito anche , seppure con minore intensità, la valle del Tronto ed erano stati fatti, nei giorni seguenti, gli stessi appelli e le stesse promesse che sento oggi.
Lì la politica decise. Decise tra il mettere in sicurezza i paesi per salvaguardare le anime e le opere d'arte di quel territorio o il fare la nuova strada, che avrebbe sicuramente - a detta dei locali esponenti di partito - rilanciato l'economia della zona.
Ora il risultato di quella scelta è lì sotto gli occhi di tutti, ma i mass media non "vedono" questo fatto.
La strada è in piedi, vuota come sempre (ma quanta gente mai andrà da Norcia ad Ascoli? E a fare che?), Pescara non c'è più assieme a parte dei suoi abitanti.
La politica poteva scegliere diversamente. Poteva risparmiare sistemando la vecchia strada di forca Canapine - molto più bella e interessante per il turismo locale - e investire sul recupero del paese, lanciando un turismo che ancora non conosce nemmeno l'esistenza di quello che è, a mio avviso, uno dei luoghi più belli della penisola.  Poteva, ma ha scelto diversamente. Eppure nessuno oggi alza il dito verso quei politici che presero quella decisione. E' come se il pensiero dell'opinione pubblica, ormai assuefatto a decenni di slogan sul primato dell'economia e della crescita, assolvesse implicitamente quella decisione politica perché le ragioni dello "sviluppo" vengono prima di ogni altra cosa.
E purtroppo queste decisioni si continua a prenderle e nessuno, o troppo pochi, trovano da ridire su quelle decisioni.
Se un giorno - facendo gli scongiuri perché non accada - un terremoto o un alluvione colpissero l'alta valle del Chienti o l'alta valle dell'Esino, quanti rinfaccerebbero la scelta di costruire la tanto osannata Quadrilatero, investendo in quell'opera dalla dubbia utilità ed urgenza, invece che sanare e valorizzare l'esistente creando le premesse per un vero rilancio economico e civile di un territorio colpito dalla risi industriale? E lo spesso dicasi per la Fano-Grosseto, per il by-pass ferroviario di Falconara o per la mega-uscita ovest dal porto di Ancona...
Davvero ancora crediamo alla favola che le nuove infrastrutture rilanciano l'economia? Che i grandi investimenti pubblici come la TAV hanno qualcosa a che vedere col benessere dei territori attraversati?
Ha ragione Charlie Hebdo, seppure mi dispiace ammetterlo: il problema dell'Italia è e resta la mafia. Mafia che ormai si confonde nella politica e negli appalti. Mafia che spinge affinchè vengano prese dalla politica quelle decisioni a lei utili che la politica puntualmente prende. E non sto parlando soltanto  della mafia delle cosche e di mammasantissima, ma anche di quella più diffusa che alberga nelle abitudini e nel fare degli italiani, nella corruzione e nell'attribuzione della qualifica di "furbo" a chi la pratica anzichè di "criminale",
Quando sento parlare ancora i dirigenti del CONI e certi politici circa l'opportunità di portare le Olimpiadi a Roma, sapendo la situazione drammatica in cui versa la capitale dove c'è da ricostruire un intero tessuto civile, mi viene la pelle d'oca. 
Davvero c'è chi crede ancora che un "evento" come le Olimpiadi possa risolvere i problemi della città che è diventata, di fatto,  una nuova capitale della mafia?
Certo se pensiamo che un forte investimento pubblico (l'ennesimo) su Roma possa aiutare la città a risollevarsi, dobbiamo però pensare ad un'Olimpiade che invece di costruire nuovi impianti rimetta in uso e miglio quelli attuali. Ad un'Olimpiade che invece di costruire un nuovo villaggio olimpico acquisti immobili esistenti e non utilizzati per poi, a giochi finiti, usare quegli alloggi nella politica della casa. Ad un'Olimpiade in cui il Comune di Roma possa ottenere soltanto vantaggi in termini di servizi ai cittadini e dove tutta la responsabilità economica, in caso di deficit dell'operazione, ricada in solido negli organizzatori. 
Ma sono sicuro che di fronte a queste condizioni, i dirigenti del CONI e Montezemolo sarebbero i primi a ritenere inopportuno che Roma ospiti le Olimpiadi...
Ecco, quella che la nuova amministrazione di Roma ha di fronte è una decisione politica. Vedremo dal tipo d decisione, se i 5 stelle rappresentano davvero quel cambiamento che promettono di essere o sono soltanto l'ennesimo fallimento di una voglia di cambiamento che forse, nel cuore degli italiani, non è poi così profonda.