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spazio libero di chi vuole un futuro migliore per la nostra città

sabato 17 novembre 2012

Dentro la crisi, oltre la crisi

intervento alla conferenza organizzata dalla FIOM in Ancona il 17 novembre 2012.




Molti hanno descritto come la crisi economica e sociale che stiamo vivendo sia una crisi strutturale, o per meglio dire una “crisi di sistema”.
Nel modo corrente di pensare la realtà, espressione del pensiero positivo, la crisi è vista come una palude insidiosa e fatale da cui occorre uscire, in un modo o nell’altro, più in fretta possibile, per ritornare al terreno sicuro che abbiamo lasciato alle spalle, dal quale proveniamo.
La crisi non è questo. La crisi è  un passaggio per certi versi inevitabile, connaturato al percorso di evoluzione civile che si dipana nella dimensione sociale e in quella storica. Percorso a cui è stato dato il nome di “progresso”.
Sebbene la crisi determini tragedie e costi sociali elevati, la crisi non è di per se un male, in quanto è semplicemente una trasformazione, il compimento di una fase e l’inizio di un’altra.
Se così è, allora è assolutamente sbagliato tentare di uscire dalla crisi perché così facendo non facciamo che prolungare il tempo dell’inquietudine, della sofferenza, della paura e dello smarrimento.
La crisi va affrontata entrandoci dentro, lasciandoci “guidare” dalla crisi stessa verso la nuova sponda, una sponda assolutamente diversa e per certi versi opposta a quella da cui proveniamo.

Questa premessa non vuole essere una disquisizione pseudo-filosofica che, in un momento veramente drammatico per molte famiglie, apparirebbe del tutto fuori luogo, ma vuole fissare uno dei cardini essenziali su cui poggiare la porta che ci può aprire la strada verso il superamento della crisi: un cardine a cui do il nome di “accettazione”.
La crisi non va combattuta. Non va contrapposta ad essa la negazione delle conquiste sociali, il precariato del lavoro, il tornare, in altri termini, all’era industriale delle origini incarnata oggi dal modello cinese. Un modello ultraliberale che vede lo Stato snello e funzionale alle leggi dell’economia e della finanza. 
Ma probabilmente neanche le patrimoniali, le tassazioni delle transazioni, in quanto armi utilizzate per combattere la crisi, sebbene meno ingiuste di altre, sono davvero utili.

Tutte le armi utilizzate oggi per contrastare la crisi non sono che azioni disperate e scomposte di chi si ostina a non voler accettare la fine di una visione del mondo. Un mondo, quello creato dal pensiero liberale, che è terminato con gli aiuti di stato alla finanza operati prima negli USA e poi in Europa.

“Accettare” la crisi significa prendere atto di questa conclusione irreversibile. Prendere atto che il mondo del lavoro, che la politica, l’intera organizzazione sociale, a vari livelli, sono destinate a cambiare profondamente. E’ verso questo cambiamento che dobbiamo orientare il nostro sguardo.

In Italia ci sono oggi circa 2 milioni e mezzo di disoccupati. Oltre il 30 % dei giovani non ha occupazione. In Spagna siamo al 50%.
Il “sistema del lavoro” come l’abbiamo concepito fino a ieri non funziona più, non è più in grado di mantenere la società!

La questione che si impone oggi non è tanto stabilire se si debba resistere a difesa del contratto di lavoro indeterminato o se si debba aprire alla precarizzazione del lavoro, come vorrebbe il governo dei tecnici. Semmai questa resistenza ha, a mio avviso, motivi umanitari e di autodifesa delle categorie sociali più fragili.
La questione urgente è reimpostare il concetto stesso di “contratto”, il concetto stesso di “lavoro”.
La questione è dichiarare che il lavoro non deve più appartenere a un “padrone” e neanche a uno Stato ma all’individuo che lo esercita perché ha a che fare con il talento e con le aspirazioni proprie dell’individuo tanto da esserne una componente essenziale ed inscindibile, così come l’idea di identità e di libertà.

Riprendersi il lavoro significa toglierlo dalle mani del “datore”. 
Questa riappropriazione ha il compito anche di liberare il lavoro dal rapporto perverso con il profitto, con quella “plusvalenza” su cui si basa lo sfruttamento sociale nell’era industriale.
Riprendersi il lavoro significa concepire la società non sulla produzione di plusvalore e sulla crescita continua del PIL, ma sulla solidarietà e sulla ricerca dell’utilità comune. Non sullo “sviluppo” ma sul “progresso”.
Ed è questo il secondo cardine su cui poggia la porta che ci apre la strada del dopo-crisi.
Riappropriazione del lavoro come talento individuale e messa in comune di questo talento in una nuova società solidale.
Se ci avvieremo in questa direzione ci accorgeremo che la porta del dopo-crisi è già aperta e la strada tracciata. Certo è una strada nuova della quale non conosciamo ancora le insidie né la lunghezza. Nemmeno abbiamo idea del luogo da raggiungere. Ma sappiamo che è quella la strada da seguire perché è proprio la crisi a indicarcela.

Che cosa significa tuttavia in concreto attraversare quella porta? Come possiamo essere sicuri che stiamo percorrendo proprio la strada giusta?
Non credo si tratti di individuare quale settore economico sia oggi meno toccato dalla crisi e puntare a rafforzare quello a scapito di altri. Certo dire oggi che è meglio incentivare il turismo o la cosiddetta green economy invece che l’industria petrolchimica o la grande industria manifatturiera è dire qualcosa di scontato.
Si tratta piuttosto di capire se le iniziative che prendiamo, se il modo con cui affrontiamo il futuro è davvero espressione di un mondo nuovo.
Se smetto di pensare ed aspettare che qualcuno, sia esso un partito o un sindacato o un’altro ente, venga a salvarci, ma ripongo su di me, sulla mia comunità, sul talento, l’impegno e la voglia di nuovo, tutte le mie aspettative, allora sono sulla strada giusta.
Se smetto di aspettare che qualcuno mi dia lavoro e mi interrogo invece su che cosa voglio fare e sul modo per farlo assieme ad altri reinventando, se necessario, pezzi di società, dalle banche democratiche alle forme di mutuo soccorso, allora so che sto percorrendo la strada giusta.
Se nella mia attività di lavoro non distinguo più tra decisori e lavoratori perché tutti sono al contempo decisori e lavoratori, allora so che sto percorrendo la strada giusta.
Se ho piacere nel riscoprire il lavoro come espressione della mia personalità, dei saperi e delle culture che nell’era della produttività spasmodica erano state soffocate, so che sto percorrendo la strada giusta.
Se il mio lavoro non è altra cosa dalla mia salute, dal benessere mio e della mia comunità. Se tengo conto dell’ambiente e del fine sociale del mio lavoro, della capacità insita in esso di far progredire la civiltà, so che sto percorrendo la strada giusta.

Ai partiti - specie ai partiti della sinistra - ai sindacati, spetta oggi il compito di stimolare e sostenere questo processo. Ma per poterlo fare devono operare oggi un cambiamento di orizzonti netto, radicale e decisivo.

Che cosa possiamo fare domani, che cosa possiamo fare oggi?
Oltre a difendere il posto di lavoro e i diritti dei lavoratori, dobbiamo organizzare dei luoghi in cui rielaborare insieme nuove prospettive occupazionali nei territori più colpiti dalla crisi. Mentre difendiamo il lavoro al Cantiere navale dobbiamo costruire l’alternativa al cantiere navale come nuova strategia della cantieristica, basata su idee innovative, ovvero come riconversione in altri settori dell’economia.
Possiamo rivendicare il lavoro sociale – il lavoro come diritto – creando occupazione nella prevenzione del dissesto idrogeologico.
Ogni anno spendiamo circa un miliardo e mezzo di euro per l’incuria del territorio. Con un miliardo si può dare lavoro sociale a centomila persone in Italia.
Abbiamo un patrimonio culturale che il mondo ci invidia e che va in rovina. I magazzini delle sopraintendenze sono pieni di reperti archeologici da selezionare per farne materiali didattici da affittare alle scuole di tutto il mondo.
L’Italia continua nonostante tutto a generare menti brillanti, costrette a fuggire o inibite da una classe dirigente fatta di persone mediocri e sterili.  Mandiamo altrove questa classe dirigente e facciamo tornare i talenti, la passione, l’onestà, la voglia di fare società. Di questo, più di ogni altra cosa, abbiamo bisogno.

Carlo Brunelli
Sunesisambiente

giovedì 8 novembre 2012

La Marina


E' almeno dalla fine degli anni '80 che si parla della riconversione dell'ex stabilimento Montedison e dopo 25 anni ancora se ne parla.
Anzi, per la verità, non se ne parla quasi più.
L'amministrazione comunale non sa proprio che farci con quell'enorme area dismessa.  Certo... ci sono le previsioni del PRG, ma quelle sembrano essere state messe lì pur di scrivere qualcosa perchè poi - questo è ormai l'atteggiamento di chi è chiamato a gestire le città - le proposte "vere" le devono fare i privati.
I privati, nella fattispecie, sono quelli che acquistarono il complesso con la non celata intenzione di incassare i soldi pubblici allora previsti per la bonifica dei siti inquinati e per speculare sulla rivalutazione immobiliare.
I finanziamenti non sono arrivati, le speculazioni bloccate da guerre fratricide per piazzare il megacentrocommerciale della vallesina e, più recentemente , dalla crisi economica.
Di fatto tutto resta fermo o quasi, dato che i privati sono sempre pronti a costruire ipotesi qualora si aprano vantaggi economici, finanziamenti, che rendano appetibile una situazione intanto già valorizzata dal nuovo casello autostradale della Gabella, voluto dagli stessi Comuni di Falconara e Montemarciano che oggi ne rinnegano la necessità.
In questo stato confusionale l'intero complesso - dichiarato sito di archeologia industriale di grande rilevanza storico-architettonica - è andato praticamente perduto. O meglio, la sola parte culturale e di pubblico interesse è andata perduta perchè i privati conservano intatto il diritto dei "volumi", anche quelli fatti demolire di recente dall'amministrazione comunale.
Il problema posto dai proprietari a giustificazione della opportunità di edificare nella piana delle Pojole sta nel fatto - ben noto già quando decisero di acquistare il bene - che il suolo è altamente inquinato e il costo della bonifica ammonterebbe a diversi milioni di euro.
L'obiettivo dei privati, assecondati in questo dalle amministrazioni comunali,  è quello di "spostare" la volumetria, adeguatamente incrementata, nell'area libera delle Pojole cedendo l'attuale area in cui sorge il complesso ex industriale - bonificata in modo "leggero" - all'amministrazione comunale la quale, appunto,  ancora non sa che farsene. I volumi saranno oggetto di un generale cambio d'uso in residenze e commerciale, come da prassi speculativa...

Io penso che , in questa come in altre vicende, il Comune non possa esimersi dal tenere un ben altro profilo.
Innnazi tutto deve comprendere se e a che cosa può essere utile quell'area, quale la sua vocazione.
Poi, in base a questa comprensione, deve elaborare un'idea di progetto e costruirne la fattibilità.
Allora, e solo allora, deve chiamare i proprietari del sito e qualsiasi altro soggetto interessato a quel progetto per avviarne la realizzazione.

In questo senso personalmente qualche riflessione l'ho fatta e la metto a disposizione volentieri. Non certo con l'intenzione di dare una soluzione al problema (ci vuole ben altro approfondimento e tanto "realismo" per affrontare una situazione così complessa sperando di avviarla ad una trasformazione davvero fattibile) ma soltanto per provocare una discussione feconda.

  1. l'area ex Montedison appartiene a Marina di Montemarciano più che a Falconara. Questa considerazione non intende scaricare altrove una patata bollente ma è una "constatazione" essenziale. Non può essere concepito un destino futuro della ex Montedison  senza coinvolgere quello dell'abitato di Marina.
  2. l'area ha di fronte il mare ed è il collegamento che consente di collegare La Rocca a Marina e da qui a Senigallia
  3. l'area è straordinariamente accessibile, servita dalla strada statale adriatica, dalla ferrovia, dal mare e prossima al casello autostradale della Gabella che sembra quasi essere una casello "dedicato".
Stanti queste caratteristiche fondamentali il problema da risolvere è il costo della bonifica. Come può essere abbattuto? E' forse possibile volgere quello che appare essere un grave problema in una opportunità?
La bonifica dell'area può essere affrontata in due modi:
  • una bonifica "leggera", che ha costi più contenuti ma lascia il terreno in parte inquinato (inertizzato ma inquinato) e quindi inadatto alla residenza od a funzioni che comportano la permanenza di persone per lunghi periodi. Questa prospettiva induce alla delocalizzazione delle funzioni e dei volumi in aree limitrofe non inquinate realizzando nell'attuale sedime uno spazio verde, preferibilmente boscato ed a bassa frequentazione pubblica.
  • una bonifica "radicale" che comporta ingenti costi in quanto occorrerebbe sbancare fino almeno a 5 m. di profondità nel settore più inquinato (lato verso Marina), smaltire le terre inquinate e sostituirle con terra "buona". Questo permetterebbe il riuso delle volumetrie esistenti nel medesimo sito senza dover occupare la piana delle Pojole.
La prima ipotesi è quella presa in considerazione dai privati e - di coseguenza - dalle amministrazioni locali. Per questa ipotesi sono già pronti i progetti.
La seconda ipotesi è scartata a priori: troppo costosa, non conveniente.
Se tuttavia riusciamo a distogliere l'attenzione dalla solita prospettiva di convertire un'area dismessa - qualsiasi area dismessa - nel solito mix di funzioni residenziali e commerciali, pensando invece a ciò che veramente potrebbe essere un catalizzatore di interesse in quella particolare situazione; se cioè poniamo attenzione alla "vocazione naturale" del luogo, alla sua eccezionalità ed unicità, allora può capitare di immaginare altro. Può succedere di notare che lungo la costa adriatica, specie a nord di Ancona, i porti tendono sempre più a svilupparsi all'interno. Per fare i porti, da quello storico di Cesenatico a quelli più recenti del litorale veneto, si cava terra in prossimità del mare e si creano delle darsene, alimentate anche dalle acque superficiali provenienti da piccoli fiumi e canali.
Sbancare 5 metri di terreno per ricavare una darsena. Lo si è sempre fatto - ed è un costo "ragionevole" in funzione dell'obiettivo - per realizzare un piccolo porto un tempo ad uso della pesca ed oggi per ospitare le imbarcazioni turistiche. 
Lo sbancamento lo si deve comunque fare per bonificare.. ed ecco che il problema diventa opportunità.
Quel porto turistico che pur aveva mosso interesse economico in un luogo improprio come Villanova e con dei costi altissimi per realizzare le difese a mare, può trovare una sua ragion d'essere ed una sua "convenienza" oggettiva alla ex Montedison.
E se questa idea così singolare e foriera di possibili attività si estendesse a tutto l'abitato di Marina? Se il brutto canale cementato del fosso Rubbiano facesse entrare il mare diventando un porto-canale? (le dimensioni in larghezza sarebbero simili a quelle del porto di Cesenatico ideato da Leonardo da Vinci) Se l'intero lungomare di Marina, inutilizzabile oggi a fini balneari, diventasse una passeggiata sulla banchina di un porto esteso, poco invasivo, fortemente legato alla vita cittadina? Se il Mandracchio divenisse il fulcro di una nuova città marinara?
In un momento di crisi economica, dove l'edilizia residenziale è ferma, il commercio non tira, occorre ideare qualcosa di veramente nuovo e di unico per attrarre possibili investitori. Un porto turistico facilmente accessibile e "servito", nonostante la crisi abbia colpito anche la nautica, lungo l'adriatico può rappresentare ancora una fonte di interesse. Ma anche la piccola pesca, il piccolo rimessaggio nautico, finita la corsa a chi ha il peschereccio dal motore più potente, può rappresentare una prospettiva interessante.
Quando, alcuni anni fa, incontrai un noto manager triestino operante nella portualità turistica, il quale aveva mostrato interesse al progetto del porto di Villanova, questi mi spiegò che un porto turistico, per poter funzionare, deve contare sulla possibilità di legarsi ad uno spazio urbano. Ragionando sulla carta del territorio di Falconara spostai la sua attenzione verso la ex Montedison. Qui, gli dissi, ci sono buoni fondali e soprattutto c'è un abitato, quello di Marina di Montemarciano, che manca di una sua identità, di un suo rapporto riconoscibile con il mare. Il suo sguardo iniziò ad esplorare la cartina con attenzione e poi, spostandosi sul mio sguardo mi disse. "si, questo è davvero un sito molto interessante".
Ho la sensazione che se qualcuno gli proponesse di nuovo quel sito lo riterrebbe ancora oggi interessante, nonostante la crisi.


giovedì 1 novembre 2012

L'urbanistica non si fa con gli slogan

L'urbanistica - o come dovrebbe tornare a chiamarsi - l'architettura del territorio, è una disciplina seria che richiede studio, esperienza, applicazione, discussione e selezione dei risultati. Esattamente il contrario degli slogan, delle mode e dei modelli.
La crisi dell'urbanistica moderna ha inizio con l'affermarsi delle "tendenze", come l'urbanistica negoziata, l'urbanistica perequata e, da ultimo, l'urbanistica sostenibile.
La moda della stagione autunno-inverno 2012 è nello slogan "stop al consumo di suolo",
Fermare il consumo di suolo è in sostanza una prospettiva che potremmo definire "lapalissiana". E' scontato che, con un enorme surplus di costruzioni rispetto alle reali esigenze, di fronte ad una crisi spaventosa che colpisce l'ediliza, il voler urbanizzare altro territorio sia da considerare sintomo di grave demenza. E di fatti non mi sembra che, a parte qualche amministratore poco salato, ci sia oggi tutta questa corsa alla speculazione ediliza come nei decenni passati.

Chi si scopre oggi fautore della limitazione del consumo di suolo, quando la risorsa suolo cominicia a scarseggiare, non dimostra affatto di aver capito davvero il senso di quel limite. Spesso queste persone sono le stesse che fino a pochi anni fa, quando ancora il suolo era disponibile, quando ponevo il problema di contenere la forma urbana alzavano le spalle o si mettevano a ridere (adducendo i motivi dettati dalle tendenze urbanistiche del momento) . Così diffido fortemente di chi affronta l'urbanistica per slogan.

Sento oggi nei programmi elettorali per le prossime elezioni parlare ancora di urbanistica per slogan, e mi viene la pelle d'oca: "basta cementificare ancora, dobbiamo pensare a ristrtturare l'esistente".
Detta così questa affermazione serve solo a confortare alcuni e a far incazzare altri, fomentando divisioni. Salvo poi accorgersi che la banalità e genericità della proposta (che non è una proposta) rischia di avere come effetto quello di una ancora maggiore stagnazione del mercato edilizio aprendo le porte a chi, in nome dell'economia e del lavoro, aggredirà ancora il territorio per ricavarne profitto.

Quello slogan è fuorviante e irresponsabile, specie nel caso di Falconara, per una serie di motivi:

1)
Il mercato edilizio è in grave crisi. Nel settore edilizio lavorano migliaia di persone, sostenendo migliaia di famiglie. Se l'edilizia si ferma, si ferma l'intera economia locale. Quando quindi si parla di "ristrutturare" l'esistente, a partire dalle aree degradate, bisogna anche essere in grado di definire:  
a  -   chi deve intervenire
b  -   per realizzare che cosa
c  -   come possiamo fare in modo che le ristrutturazioni "stiano nel mercato", contenendo quindi i costi
d  -  quali strumenti mettiamo in campo per garantire una programmazione che abbia tempi certi
e  -  quali strumenti mettiamo in campo per garantire la qualità e le ricadute positive per la città
f   -  in che modo i diversi interventi stanno insieme in un piano di riqualificazione dell'intera città
          
Se questi punti essenziali non vengono declinati, proporre la ristrutturazione anzichè il consumo di suolo è come dire che è meglio stare in buona salute che essere malati. Questo non cura il malato nè evita che il malato torni a prendere le solite medicine!

2)
Falconara è una città densa, dequalificata, inquinata. Non è certo l'immagine della città "sostenibile" da prendere ad esempio come luogo da abitare.
Se volgiamo davvero migliorare questa città sentiamo l'esigenza di operazioni di diradamento, di apertura di spazi, di riduzione della densità edilizia in certe zone.
Per fare questo occorre delocalizzare.  Si può farlo in aree già urbanizzate o in zone oggi libere, è da valutare a seconda delle condizioni, ma dire che non si può ripensare la forma urbana equivale a dire che la città deve rimanere sostanzialemte così com'è oggi. Significa tutelare una città dequalificata.
Sappiamo bene che ristruttrare l'esistente comporta, nella quasi totalità dei casi, un incremento delle volumetrie per poter rendere l'operazione fattibile. Se non possiamo spostare altrove queste nuove volumetrie dovremmo quindi assistere ad una nuova ulteriore densificazione del centro urbano?
L'idea di ribaltare il sistema di accesso alla città , da via Flaminia alla variante alla SS 16, anche per drenare la pressione del traffico sulla fascia litoranea e ridurre il carico di polveri sottili, quando la proposi più di un anno fa è sembrata a tutti essere una soluzione intelligente e nuova.
Ma questa soluzione comporterà inevitabilmente consumo di suolo. E se poi volessimo associare a questa azione di risanamento anche a delocalizzazione delle case comprese tra la ferrovia e via flaminia, aprendo la città al mare, probabilmente avremo necessità di nuove aree in cui insediare quei volumi.
Queste soluzioni non rispettano affatto lo slogan "stop al consumo di suolo" ma sono le soluzioni senza le quali Falconara non potrà mai migliorare.

Così intendo sottolineare che dietro alla banalizzazione delle questioni, al populismo spicciolo, si celano insidie pericolose. Le questioni complesse non possono essere ridotte a slogan di due righe per poterle inserire in un volantino elettorale!

Se vogliamo parlare di ristrutturare Falconara, anzichè espanderla, questa volontà non deve derivare dall'applicazione di una frase fatta, ma soltanto dalla consapevolezza che questo è ciò che serve oggi alla realtà di Falconara.
Se questo è davvero ciò di cui Falconara ha bisogno, ed io sono da sempre (non solo oggi) convinto che sia così, allora dobbiamo esplicitare questa volontà in progetti, scenari, valutazioni di fattibilità, strumenti attuativi e programmi.

Per pensare alla ristrutturazione di Falconara occorre a mio avviso tenere presenti alcune considerazioni di base:

  1. L'entità ed il valore storico-architettonico delle aree degradate o inutilizzate di Falconara sono elevatissimi. La distribuzione delle situazioni da recuperare è articolata e diffusa, specie nella parte nord e verso Castelferretti, interessando pressochè tutti i quartieri della città. L'insieme delle operazioni da definire, se ben integrate, può davvero inquadrare un processo di rivitalizzazione della città.
  2. occorre definire per ogni area un'idea di progetto, nel quadro di un progetto integrato esteso all'intero territorio comunale e oltre. Occorre credere in quell'idea con tenacia e incisività fino a vederla realizzata. Si deve evitare in ogni modo l'atteggiamento usato da tutte le amministrazioni falconaresi in cui, a fronte della mancanza di idee fissate dalla pubblica amministrazione, le uniche proposte sono quelle avanzate e spinte dai portatori di interessi privati i quali, come dice il nome, sempre antepongono quelli all'interesse pubblico.
  3. L'iniziativa, l'idea e il contenuto dei progetti deve essere pubblica, ma i soldi per realizzare gli interventi devono necessariamente venire dai privati. Non è scritto da nessuna parte che debba essere chi ci mette i soldi a decidere il da farsi. Esistono strumenti alternativi che offrono ai privati l'opportunità di partecipare, da imprenditori e non da speculatori immobiliari, a progetti nati per iniziativa pubblica. Sono strumenti usati diffusamente in Europa, meno in Italia, come le Società di Trasformazione Urbana. Questi strumenti necessitano soltanto di un grande lavoro di preparazione, redatto con competenza e professionalità specie nella definizione della fattibilità economica. Ciò implica una revisione del modo di lavorare all'interno della pubblica amministrazione, ben diverso dall'attuale approccio burocratico-impiegatizio.
Esamineremo, in questo blog, tutte le principali aree dismesse di Falconara, orte a quella della ex caserma Saracini di cui abbiamo già parlato, tenendo sullo sfondo - uno sfondo essenziale alla rappresentazione - l'azzeramento delle scellerate idee calate su Falconara negli ultimi anni, dalla Quadrilatero, al by-pass ferroviario, agli spettri di nuove megacentrali a turbogas, al rigassificatore, al megaporto turistico e relativo "borgo marinaro".  Queste cose scellerate vanno collocate solo nell'indifferenziata, dato che non sono per niente riciclabili.